Arriva anche in Italia del grande scrittore francese: si legge un capoverso alla volta questo breve testo, perché ti costringe a riflettere
Anche in Italia, dopo la pubblicazione francese (Gallimard, 2022), arriva l’inedito di Louis-Ferdinand Cèline “Guerra (156 pagine, 18 euro) nella traduzione di Ottavio Fatica. Sulle vicende della sottrazione del manoscritto ricomparso dopo 44 anni si è già scritto e rimandiamo alla premessa di François Gibault e alla nota all’edizione di Pascal Fouché. Tutti concordano – e lo si intuisce anche dalla lettura – che “Guerra” fu scritto nella stessa temperie di “Viaggio al termine della notte (1932)” ma è stato accertato non esserne un lacerto, ma un qualcosa che abbia formato oggetto di una pubblicazione appena successiva: nessuno dubbio, invece, che sia il miglior Céline perché nel testo c’è tutta l’idiosincrasia che il grande scrittore provava – lui medico – per la morte e per la guerra.
L’inizio è folgorante:
“È stata la prima volta che ho dormito, in quella melassa piena di granate che passavano fischiando, in tutto il rumore che hanno voluto fare, senza perdere del tutto conoscenza, cioè insomma nell’orrore. Ho sempre dormito così nel rumore atroce dal dicembre del ’14. Mi sono beccato la guerra nella testa. C’è l’ho chiusa nella test” (cfr: “Guerra”, di Louis-Ferdinand Céline, Adelphi).
C’è molto resoconto, ma personale resoconto – di un ragazzo di vent’anni – che diventa romanzo universale. Cosa fa la guerra? La guerra ti entra dentro e fai fatica financo ad ascoltarti: ti blocca i lacerti di pensieri elementari – il passato è scordato – e la memoria diventa una bolgia, per non parlare del futuro di cui provi terrore. La guerra – quando sei ferito – ti impedisce di renderti conto del reale: non riconosci più gli oggetti, gli animali i tuoi simili. “Mi ero diviso il corpo in varie parti. La parte bagnata, la parte che era sbronza, la parte del braccio che era atroce (…) la parte del passato che già cercava, me lo ricordo bene, di aggrapparsi al presente e non ci riusciva più – e poi ancora il futuro che mi faceva paura più di tutto il resto, e per finire sopra le altre una parte stramba che voleva raccontarmi una storia. Una roba che non potevi più chiamare sfiga, era buffa”.
Sembra una narrazione che fa pensare – ma in realtà l’anticipa di pochi anni – alla grafia di “Guernica”, quel segno grafico che spezzetta tutto come riflesso della guerra che distorce i sensi. Si legge un capoverso alla volta questo breve testo – perché ti costringe a riflettere -, che trasuda consapevolezze lucide, ma che in questo tempo di guerra naturale capitalistica fanno ancora più male “più giù alla coscienza”.