Li abbiamo educati ad annoiarci, è un patto sociale. Però poi gli rinfacciamo le dichiarazioni d’amore come adolescenti traditi

Quando il “traditore” Donnarumma lasciò Milano per andare a giocare con Messi a Parigi, la Gazzetta dello Sport gli fece un’intervista di due pagine, tempo di lettura 6 minuti e 15 secondi. La prima domanda fu: “Non è che le manca un po’ l’Italia, al di là della pizza e del caffè?”. Donnarumma, napoletano ancor prima che italiano, doveva scontare al raddoppio il cliché dell’emigrante che nella valigia di cartone Louis Vuitton infila, per sopravvivenza, la moka e una boccetta dell’acqua partenopea. Ché il segreto è l’acqua, si sa. Era, quello, un tenero tentativo di offrire redenzione al ragazzo: Donnarumma era stato precedentemente processato in pubblica piazza e riconosciuto colpevole. Gli rinfacciavano, tifosi e giornali (ormai i primi non leggono più i secondi, peraltro), di aver baciato la maglia del Milan, una volta. E poi di essersene “fuggito” all’inseguimento dei soldi, in un Paese notoriamente sprovvisto di bidet. Donnarumma non espresse il pentimento dovuto, quasi imbarazzato.
E’ un canovaccio. Ora tocca a Sandro Tonali. La Gazzetta dello Sport ieri ha pubblicato il collage delle sue dichiarazioni d’amore al Milan. Come una fidanzata lasciata all’altare, umiliata, davanti ai parenti che si chiedono se salterà pure il buffet degli affettati. Il senso è, ovviamente, “non puoi mollarmi così, perché alle 20:38 del 7 novembre di due anni fa dicesti che mi amavi. Ci sono le registrazioni, i riflessi filmati”. Il sottinteso è: la prossima volta, almeno, stai zitto.
E invece no. Perché non è colpa dei calciatori. Siamo noi che li disegniamo così. Ipocriti, finti, melliflui. Il contrario non sarebbe accettabile. Pensate Tonali al primo giorno di ritiro del Milan che mette le mani avanti coi giornalisti: “Sarei rimasto al Brescia, ma al Milan guadagno il quadruplo. E se un giorno mi chiamasse il Newcastle offrendomi un altro quadruplo dello stipendio attraverserei la Manica a nuoto”. Apriti cielo di Milano.
Nel calcio una maglia lanciata alla curva è un matrimonio fine pena mai. Il romanticismo, nel pallone, è violento, infido e vendicativo. T’aspetta al varco. La dittatura delle favole produce una ritorsione continua, con un codice quasi criminale. La gente pretende le “bandiere”, e se non le ottiene poi le brucia.
La scappatoia morale è sempre, nell’immaginario collettivo, un procuratore cattivo che ti condiziona. Il campione soggiogato dalla setta degli agenti senza scrupoli. Le società, solitamente, alimentano la narrazione della colpa, alzando le mani: l’offerta che il club non può rifiutare (per definizione ormai scontata) il calciatore dovrebbe respingerla, persino offeso. Altrimenti che amore era? La leva etica è affilata.
I calciatori sono cresciuti a quesiti basilari. Qual è il tuo piatto preferito? A chi dedichi il gol? Che giorno è oggi? Come ti chiami? Gli abbiamo insegnato una grammatica di risposta apposita: loro erano in undici, la palla è rotonda, dopo una discesa c’è sempre una salita, antani con scappellamento a destra. Di solito recitano la parte disperdendo all’orizzonte uno sguardo mezzo mistico mezzo Forrest Gump. Ci dicono quel che vogliamo sentire. Li abbiamo educati ad annoiarci, a farsi amare così come non sono. E’ un patto sociale. Finisce la partita, e il pubblico a casa sa che finalmente – “la parola ai protagonisti!” – si può andare a pisciare.
A posteriori invece pretendiamo coerenza: il Milan che non vende Tonali o Tonali che rinuncia a guadagnare 10 milioni l’anno per giocare in Premier League. Perché nelle favolette l’amore vince sempre. Spalletti, infatti, l’ha risolta così: “A volte ci si lascia per troppo amore”. E vissero tutti felici e contenti.