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Vecchioni: «Il maestro di musica disse a mia madre: “Le ridò i soldi, suo figlio non imparerà mai”»

Al CorSera: «Samarcanda l’ho scritta tra Milano e Bologna in macchina. Uno davanti a me frena all’improvviso: gli urlo “Oh, coglione!”, è diventato “Oh cavallo”».

Vecchioni: «Il maestro di musica disse a mia madre: “Le ridò i soldi, suo figlio non imparerà mai”»
Db Milano 05/12/2005 - concerto di Roberto Vecchioni / foto Daniele Buffa/Image nella foto: Roberto Vecchioni

Walter Veltroni intervista Roberto Vecchioni per il Corriere della Sera. Vecchioni ripercorre la sua carriera e la sua vita.

«La vita è fatta di errori, di salti, di sbagli e io ne ho fatti tanti. La mia carriera ha influito tanto, tantissimo per le persone che mi sono vicine. Però se avessi rinunciato alla mia carriera probabilmente sarebbe successo qualcos’altro. Molti amici li ho persi per colpa mia, perché mi sono comportato in maniera stupida o arrogante. Li ho persi e qualcuno non l’ho ritrovato più. Gli errori sono sempre sugli affetti, mai sulle cose. Non mi importa nulla di aver vinto o no Sanremo. L’errore è sull’affetto sbagliato, non compreso o non dare nel momento in cui devi».

Come era Vecchioni da bambino?

«Ero curiosissimo. Ho cominciato a leggere greco a dieci anni, mio papà mi ha detto che ero pazzo. Ma io, con la testa dura che avevo, a undici anni sapevo già leggere quella che poi è diventata poi la lingua della mia vita. Ma ero normale, non un fenomeno. Andavo in bicicletta in discesa a cento all’ora e non me ne fregava nulla del pericolo. Ero curiosissimo, un grande lettore. Ho cominciato a leggere a sei anni e non mi sono più fermato. Per me il romanzo, la poesia erano il corrispettivo sognato della vita. Ho letto Machiavelli a dodici anni, capendo alcuni principi, me lo sono fatto regalare a Natale. Volevo arrivare a vedere, a capire cosa pensano gli uomini, cosa hanno pensato nel tempo».

E la musica?

«Ho cominciato perché sentivo a radio Luxembourg canzoni americane, francesi. Sempre per la mia curiosità, la mia voglia di cercare ciò che non sapevo già, ho voluto imparare a suonare la chitarra. Ho tentato di imparare da solo, ma non riuscivo, allora mia mamma che era una donna meravigliosa, mi ha preso un maestro. Lui insegnava con il solfeggio, io però volevo gli accordi per suonare le canzoni. Dopo quattro lezioni il maestro è tornato da mia madre e le ha detto “Le ridò i soldi, suo figlio di musica non capisce niente”. Così è iniziata la mia carriera».

Vecchioni racconta le sue passioni musicali.

«Avevo una passione naturale per il pop, il rock di allora: Elvis Presley, Fats Domino, Paul Anka. Più avanti la grande West Coast di Crosby Stills Nash & Young, Cat Stevens, Jackson Browne. E, soprattutto, Bruce Springsteen. Brel, Brassens mi piacevano molto».

Sanremo cosa è stato per te?

«Inimmaginabile, quello che è successo. Innanzitutto quel rompicoglioni di Morandi che mi telefonava ogni giorno per farmi andare. È persino venuto a casa mia da Bologna per prendermi per il collo. Io gli dicevo che non avevo brani, che la mia musica con Sanremo non c’entrava niente. Ma lui insisteva. Una sera mi trovavo a Roma per un concerto. Vivevamo un periodo brutto, il 2011, e io ero addolorato per l’Italia. Il portiere di notte dell’albergo mi disse “Professo’, adda passà ‘a nuttata”. Io ero in ascensore e quella frase mi era restata dentro. Pensavo “questa maledetta notte dovrà pur finire”. In camera avevo scritto già mezza canzone, nella mia testa. Non avevo niente per scrivere e allora ho telefonato al mio arrangiatore e gli ho cantato tutta la canzone per telefono. Il giorno dopo ho chiamato Morandi e gli ho detto: “Gianni, ce l’ho, la canzone”».

Vecchioni parla di «Luci a San Siro» e «Samarcanda».

«Luci a San Siro è una canzone d’anima, quelle che vengono fuori così, senza neanche bisogno di ragionare. Samarcanda l’ho scritta tra Milano e Bologna in macchina. Mio padre è morto proprio quando sembrava che stesse guarendo. Era malato di cancro, sembrava guarito, ma nel momento in cui pensavamo che fosse tutto a posto, il destino se l’è preso. Ho ricordato la leggenda araba del re che salva il suo servo e lo manda in un’altra città per allontanarlo dalla morte. Ho scritto questa storia durante quel viaggio in auto. Ce l’avevo già tutta. Solo che mi mancava uno spunto, qualcosa. Sì, era una bella canzone, però volevo metterci qualcosa che giungesse a tutti. Arrivo a Bologna, a un semaforo. Uno davanti a me frena, all’improvviso, io gli vado quasi addosso e gli urlo “Oh, coglione!” E quell’“Oh coglione” è diventato “Oh cavallo”».

Che speranza hai oggi a ottanta anni?

«Arrivare a ottanta anni è una fatica, ma si è come prima. Quando la mente e il cuore sono come quando hai trent’anni, il resto cambia poco. L’infinita bellezza di avere ottanta anni è che ti viene l’idea che tu non morirai. Il giovane ha naturalmente paura della morte. Forse i giovani di oggi no, perché vanno in giro a fare quelle cose orribili, proprio perché hanno perduto le parole. Invece il vecchio pensa che sarà un addormentarsi lento. Non è una fine, è un vivere in un altro modo. Nel Prometeo c’è una frase che spiega tutto: “Io ho tolto agli uomini la paura della morte. Come hai fatto? Ho immesso nei loro cuori speranze cieche”. Questa è la forza che ci manda avanti. La speranza non ci fa vedere più indietro. Andiamo avanti così. E non pensiamo alla morte. Tutti pensiamo al lavoro, a fare l’amore, alla vacanza. Nessuno pensa alla morte, perché siamo pieni di tante altre cose meravigliose che ha immesso in noi il Creatore, o la Natura, proprio per evitarci questo pensiero».

 

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