A La Repubblica Torino: «Le aziende mi chiamano per incontri motivazionali su come si crea un gruppo vincente. Racconto aneddoti, faccio domande».

La Repubblica Torino intervista Antonio Cabrini, il terzino sinistro più forte del mondo. Per anni è stato l’uomo più bello d’Italia. Cabrini parla di quanto lo ha agevolato e limitato la sua bellezza.
«La bellezza è stata il mio doppio, come due persone che vivono in una sola. E’ stata la mia compagna di viaggio ed è andata bene così. All’inizio, però, lo specchio non mi diceva proprio niente, di sicuro non mi sarei mai fatto un selfie. Poi mi sono abituato. La gente vedeva in me il calciatore forte e, insieme, l’immagine. Brera mi chiamò “il bell’Antonio”, come il romanzo di Brancati: ora, dopo tanto tempo, lo ringrazio».
Lei è stato il primo giocatore italiano a fare pubblicità: merito, anche questo, della bellezza?
«Era il 1978, Mundial d’Argentina. Il fondatore della Robe di Kappa, Maurizio Vitale, disse ai suoi collaboratori: “Questo Cabrini è una rockstar, è perfetto per noi”. Cominciò così. Nello spot correvo in un bosco con addosso una tuta».
Cabrini racconta che le donne gli lanciavano di tutto quando lo vedevano passare.
«Mi tiravano catenine d’oro, anelli, mutandine, ciocche di capelli, trecce che si erano tagliate per me, reggiseni: un delirio. Le mie rarissime passeggiate erano come la processione di una statua. Una volta, a Campobasso, nel tragitto tra il pullman della Juventus e l’albergo mi ritrovai mezzo nudo, le tifose mi avevano tolto quasi tutto».
Anche lei, immaginiamo, ogni tanto si toglieva qualcosa.
«Se c’era la partita, pure Miss Mondo nel letto non mi avrebbe deconcentrato. Parlando seriamente, il pubblico femminile è garanzia di successo: le donne leggono tanto, si informano, guardano di più la televisione, sono esigenti, non superficiali, hanno la capacità di capire meglio».
Cabrini racconta il rapimento di suo nonno.
«La Fiat mi mise a disposizione per qualche tempo un’auto blindata, avevano paura che mi portassero via. Il presidente Boniperti veniva all’allenamento e mi chiedeva: “Tutto bene?”. Ma noi calciatori eravamo rispettati e protetti. Per andare al campo passavo ogni giorno davanti ai cancelli di Mirafiori, a volte c’erano scioperi e picchetti, ma mai nessuno mi ha creato problemi. Sì, eravamo ricchi e famosi, però non come quelli di adesso, e in fondo andavamo a lavorare. A Torino, la città dove il lavoro viene prima di tutto».
Oggi Cabrini è un mental coach.
«Il mental coach. Le aziende mi chiamano per incontri motivazionali, quasi sempre su come si crea un gruppo vincente: io scelgo alcune parole chiave, che so, paura, forza, stile, poi mostro le slide e comincio la mia relazione. La domanda classica è come si costruisce un gruppo vincente. Mi piace coinvolgere il pubblico. Racconto aneddoti sulla mia vita, faccio domande».
Eppure non è mai stato un grande oratore.
«Sono cambiato, sono diventato estroverso. Alle aziende domando: quanto devo parlare? Un’ora? Due ore? Quattro? Nessun problema: parto e non mi fermo più. Vivo proprio di corsa. Sono preparato, ho anche scritto un libro sulle parole motivazionali. Un po’ come fare l’allenatore, con il vantaggio che non si perde mai».
A Cabrini viene chiesto quanto gli è servito giocare nella Juventus.
«Moltissimo, per le vittorie e per l’immagine. Ma sono diventato Cabrini soprattutto in nazionale».
E’ vero che la gente la vuole ancora toccare?
«Sinceramente sì. Mi fermano, mi stringono la mano, cercano il contatto fisico. Come quando si tocca un santo in chiesa, oppure una gobba portafortuna. Confesso che questa cosa mi inquieta un po’, anche se da un lato mi fa piacere».