L’Arabia Saudita non ha intenzione di diventare l’ennesimo cimitero per elefanti, il problema Superlega sta rinascendo con forme e sembianze diverse
Al-Hilal, Al-Ittihad, Al-Nassr… una buona parte degli appassionati, fino a qualche tempo fa, non sapeva neanche che si trattasse di squadre di calcio. E invece, oramai da settimane, nel mondo dello sport quasi non si parla d’altro. Dalle nostre parti tra un «here we go» ed un altro, si assiste inermi – e perfino un po’ abbattuti – alla dirompenza dell’intervento dei club sauditi, che forti di uno strapotere economico con pochi eguali, hanno letteralmente cannibalizzato la sessione di calciomercato, soprattutto con riferimento alla nostra umile Serie A, alterando ulteriormente equilibri economici già molto fragili.
È la prima volta? No, o almeno non proprio. Ma i pur molteplici tentativi di dar vita a circuiti alternativi, a leghe che potessero concorrere sul serio con quelle del calcio europeo, non hanno sortito, almeno fino ad oggi, i risultati sperati. Le innegabili ambizioni della Mls e della Chinese Super League, ad esempio, non sono bastate a far sì che questi campionati venissero seriamente considerati competitivi, tanto dagli addetti ai lavori quanto dagli stessi calciatori. L’America e la Cina, in buona sostanza, anche nei momenti migliori, sono state sempre e comunque relegate a recitare la parte delle mete esotiche propedeutiche ad un ricco prepensionamento calcistico: il classico cimitero degli elefanti.
Questa volta, però, le cose potrebbero andare diversamente. E non semplicemente perché gli sceicchi sono più ricchi degli americani. Qualche indicazione in tal senso si può infatti ricavare allargando l’orizzonte dell’analisi, raffrontando l’operazione tentata dal governo saudita (perché di questo si tratta) con gli obiettivi già raggiunti dal mondo arabo in relazione ad altre due industrie che pure generano un business miliardario: il golf e la Formula Uno.
Ciò ch’è accaduto nel mondo del golf non differisce troppo da quello che sta succedendo nel calcio: il Fondo Pif – il famoso fondo per gli investimenti pubblici dell’Arabia Saudita – ha dato vita nel 2021 alla “Liv Golf”, una vera e propria Superlega Araba del golf. Si tratta di un circuito alternativo a quello del Pga Tour, ch’è stato capace di attrarre nomi di primo ordine, da Dustin Johnson a Cameron Smith. Ebbene, dopo una prima fase caratterizzata da fortissime tensioni tra le due leghe, il gotha del golf tradizionale è stato letteralmente costretto a concludere uno storico “accordo di pace” con gli arabi, che probabilmente riscriverà il paradigma del golf mondiale, destinato a diventare meno americanocentrico che mai.
È bene specificare che rispetto al terremoto che ha scosso nelle fondamenta il mondo del golf, il fenomeno epocale che sta invece coinvolgendo il calcio non si caratterizza per l’obiettivo di creare circuiti alternativi a quelli della Fifa, con cui anzi i dialoghi sono piuttosto aperti, soprattutto in virtù della grande convinzione dell’Arabia Saudita di poter ottenere i Mondiali del 2030. Il modus operandi, però, per il resto, è stato pressappoco lo stesso: un’immissione immediata e massiccia di capitali con cui è pressoché impossibile competere col fine di spostare finalmente verso sud-est le coordinate dell’epicentro del calcio che conta. Impossibile? Non proprio…
Veniamo al caso della F1. Innanzitutto, per quanto riguarda gli assetti proprietari non ci sono stati passaggi di testimone: gli americani di Liberty Media sono ancora al timone del F1 Group. E però, oltre alla presenza ormai stabile dal 2021 del GP di Gedda, è da segnalare che, dal 2020, Aramco – la compagnia petrolifera controllata proprio dal Fondo Pif – è diventata uno dei main sponsor del circus. Pare, peraltro, che a gennaio lo stesso Fondo Pif abbia fatto un’offerta da oltre 20 miliardi per acquistare la proprietà dell’intero campionato e, sebbene le offerte siano state al momento rispedite al mittente, non è detto che sia finita qui.
Prescindendo in questa sede dai motivi per cui l’Arabia Saudita abbia deciso di investire rapidamente in maniera così eterogenea nel mondo dello sport, è evidente che se tre indizi fanno una prova, l’irruzione nel mondo del calcio – stavolta non più, o non solo, acquistando la proprietà di club europei – dovrebbe portare più di una pensiero, tanto in Europa quanto in Italia. Italia, tra l’altro, già inesorabilmente indirizzata verso un campionato sempre più periferico rispetto al calcio che conta.
L’Arabia Saudita non ha intenzione di diventare l’ennesimo cimitero per elefanti per campioni che hanno dato tutto o quasi. Sarebbe riduttivo. L’ultimo acquisto in ordine di tempo, Milinkovic-Savic, per quanto il serbo possa essere perfino legittimamente accusato di poca ambizione, rappresenta, in realtà, solo un tassello di un mosaico che prende sempre più forma. Pur trattandosi ancora di un calcio in via di sviluppo, in poche settimane questo calcio ha attratto nei propri ranghi, con CR7 da apripista, campioni del calibro di Firmino, Kanté, Koulibaly, Brozovic, Mendy e Ruben Neves, oltre al Pallone d’oro in carica Karim Benzema. Calciatori che in qualsiasi club di Serie A farebbero ampiamente la differenza. Fuoriclasse che col tempo (e di questo passo forse nemmeno troppo) potrebbero generare un appeal che va ben al di là delle semplici mire economiche, creando un circolo di competitività e ricchezza che sarebbe impossibile da pareggiare.
In conclusione: probabilmente siamo già fuori tempo massimo. Senza una riforma epocale e strutturale, che avrebbe del clamoroso per portata ed estensione, sarà difficile invertire la rotta nel breve periodo. In virtù di ciò, però, sarebbe quantomeno utile visualizzare il problema, evitare di derubricarlo a sfizio passeggero di qualche sceicco annoiato, e prendere atto che presto la Champions League potrebbe vedere minacciato il suo ruolo da regina indiscussa del calcio contemporaneo, anche perché molto spesso – Superlega docet – le soluzioni improvvisate ed arraffazzonate rischiano di essere anche peggiori del problema.