Intervista al Messaggero: «È tutto superficiale. La censura? C’è ancora».

Il Messaggero intervista Leo Gullotta. Ha 77 anni e una carriera lunga sessant’anni alle spalle.
Da ragazzo cosa sognava di fare? Gullotta:
«Non avevo sogni. Erano un lusso. Sono nato al Fortino, un quartiere popolare di Catania, ultimo di sei figli. Mamma era casalinga e papà pasticciere, che per fortuna ci ha mandato tutti a scuola. Lì, infatti, a 16 anni nei corridoi trovai un manifesto del Centro Universitario Teatrale: sopra c’era scritto che si organizzava un corso di due mesi per dodici allievi. Mi presentai, e anche se ero il più piccolo, recitando l’Adelchi di Manzoni passai la prova d’ammissione. Era il 1961».
Gullotta continua:
«Dopo il saggio mi notò l’uomo a cui devo tanto: Mario Giusti, giornalista che quell’anno portò a Catania il Teatro Stabile e lo diresse per trent’anni con risultati eccezionali. Nel 1962, ero un diciassettenne, e mi chiamò».
E suo padre come reagì? Gullotta:
«Non mi ostacolò. E quando, dopo aver preso il diploma all’Istituto d’Arte, gli chiesi cosa avrei dovuto fare, insegnare o continuare a recitare, mi disse: “Devi fare quello che desideri. Mi dispiacerebbe che mi ricordassi, un giorno, per averti indirizzato verso una scelta lavorativa che non hai mai amato”. Papà era un uomo molto intelligente».
Oggi cosa la fa ridere? Gullotta:
«Mah. Oggi si ride malamente, non c’è più l’eleganza di una volta. È tutto superficiale».
Dopo il coming out che lei fece nel 1995 disse di essere stato vittima di una censura che le impedì di fare una miniserie su Don Pino Puglisi: ha subito altri episodi simili?
«La censura continua ancora».
C’è qualcosa che non rifarebbe? Gullotta:
«Rifarei tutto. Alcune cose vanno bene e altre vanno male. Bisogna sempre provarci, però, perché se si sta fermi è finita».