Quando tifare per il Napoli non era così “cool” come oggi. Si festeggiavano le iscrizioni ai campionati. Si tifava Arturo Di Napoli, Montezine e altri
C’è stato un tempo in cui tifare per il Napoli non era così “cool” come oggi. C’è stato un tempo in cui i ragazzini di Napoli e provincia ritenevano ben più affascinante seguire squadre quali il Parma di Crespo, la Lazio di Nedved, la Fiorentina di Batistuta, piuttosto che gli azzurri dello “scooter” Turrini. Sembra il Mesozoico e invece stiamo parlando della fine degli anni Novanta o giù di lì. Era l’epoca delle iscrizioni al campionato festeggiate come la vittoria di uno scudetto. Era l’epoca in cui, tra i ragazzini appassionati di calcio, si giocava a Subbuteo stendendo quel bellissimo tappeto verde, che rappresentava il campo di gioco, sul pavimento del soggiorno di casa propria. Magari sentendosi i rimbrotti dei genitori per aver occupato tutto quello spazio.
Suonandosela e cantandosela da soli, naturalmente, inventando telecronache improvvisate sulle orme di Pizzul e Piccinini. Oppure si giocava “a mignolino”, magari tra i banchi di scuola, piegando le figurine dei calciatori e muovendo le dita delle mani per far capovolgere le stesse con una concentrazione ed una leggiadria che neanche Bollani. Io ero uno di loro. Per noi nati fra la fine degli ’80 e l’inizio dei ’90, lo scudetto di Di Lorenzo e compagni è stato pure quello di Batman Taglialatela, di Rambo Policano, del povero Imbriani e Arturo Di Napoli, del gol illusorio di Pecchia siglato nella finale di andata di Coppa Italia contro il Vicenza di Guidolin. Di Cruz. Di Schwoch e Stellone. Di Jankulovski e Montezine. Lo scudetto di quest’anno è anche loro perché sono stati i nostri primi idoli.
I bastardi senza gloria che hanno tenuto a galla la nostra fede molto prima dell’arrivo dei vari Hamsik, Lavezzi, Cavani, Higuain. Lì era già un grande Napoli. Il nostro no. Noi neanche ce lo immaginavamo uno scudetto. Della parte sinistra della classifica neanche a parlarne. Giocare un’amichevole estiva contro l’Olympiacos ci sembrava il massimo della vita da giovani sostenitori. Il mio primissimo idolo è stato Benny Carbone. Trequartista calabrese, aveva il dieci sulle spalle ed una tecnica che ricordava lontanamente quella di alcuni big dei bei tempi degli anni precedenti. Inutile dirvi di chi. Ricordo ancora la mia espressione di gioia mista a delusione quando, scartando le bustine delle figurine Panini, il vecchio Benny era uscito tra quelle di mio fratello anziché tra le mie. Dopo varie trattative presiedute dalla presenza paziente di nostro padre, eravamo arrivati ad un compromesso: io cedevo Boghossian (altro nome romantico per chi ricorda il Napoli di quei tempi) e il doppione di Faustino Asprilla (Parma), mio fratello mi cedeva quella di Benny Carbone. Ecco. L’euforia di quel momento io la ricollegherò per sempre a quella provata durante l’ultima, fantastica stagione ad ogni gol di Kvara, di Victor e di tutti gli altri. Per non parlare degli attimi che ti cambiano la vita come quelli immediatamente successivi al triplice fischio finale di Udine. Il terzo tricolore era inimmaginabile, dicevo. Per tutti, sia chiaro. E forse, proprio per questo motivo, credo che abbia rappresentato una sorta di rivincita, di riscatto, diverso rispetto a quelli dei due titoli precedenti. Ma mi si lasci passare la (forse presuntuosa) considerazione che per quelli della mia generazione, la ‘generazione Carbone’, lo sia stato ancora di più.