Vale anche per la Federico II. Come disse Ferdinando II di Borbone: “il tempo dei pappagalli è finito”. I giovani sono insofferenti verso gli insegnanti pletorici
Sono rimasto molto colpito dall’articolo intriso di orgoglio che il professor Trombetti ha pubblicato sulle pagine del Napolista, e non ho resistito alla tentazione di rispondere.
A scanso di equivoci, specifico che sono un orgoglioso allievo della Federico II, sotto il rettore Trombetti. La nostra università, che il prossimo anno compirà 800 anni, è stata e sarà sempre uno dei caposaldi della mia esistenza. Dalla facoltà di Scienze, e dai miei docenti – quasi tutti – ho ricevuto un’istruzione spesso di prim’ordine, nonché una borsa di ricerca che mi ha consentito di seguire i miei interessi scientifici all’estero per un certo periodo.
A contrappeso della dichiarazione d’amore preventiva, tuttavia, devo mettere anche tutto il carico di realismo che i quasi trent’anni dal conseguimento della laurea mi hanno caricato sulle spalle. Un realismo che proviene da tre decenni di carriera aziendale, di docenza post-universitaria, e ultimamente di giornalismo.
Continuo a considerare gli anni universitari come fondanti, ma allo stesso tempo devo osservare che pur solida preparazione era per buona parte, già trent’anni fa, scollegata dalla realtà del mondo del lavoro. Ed ho continuato a riscontrare questo fenomeno nel mio decennio di docenza. Beninteso, questa è una critica che non colpisce la Federico II specificamente, ma il sistema universitario italiano nella sua maggioranza. I ragazzi che escono dalle varie facoltà – anche quelli dell’area Stem – non hanno spesso alcuna idea di come funzioni un’azienda, né di come orientarsi nel mondo del lavoro. Giocoforza, quindi, devono spesso rivolgersi a formazione a livello Master per colmare quella lacuna e capire effettivamente cosa gli serve per lavorare.
Ci sono ovviamente alcuni atenei e facoltà che fanno di quest’ultimo passaggio parte integrante degli studi universitari, e sono quelli che compaiono nei posti più alti delle varie classifiche – ferme restando le perplessità sulla costruzione dei ranking. Trovo invece discutibile la tesi secondo cui il fatto che una certa università si trovi nella parte bassa di un ranking dipenda dal contesto territoriale in cui si trova. Il contesto adatto, in ambito professionale, lo costruisce l’esistenza di un rapporto concreto tra il mondo universitario e quello del lavoro. Il che passa secondo me dal reclutamento come docenti universitari di persone che accanto all’abilitazione scientifica prevista per legge abbiano una significativa esperienza aziendale.
Il mondo di oggi richiede a mio parere al mondo universitario italiano una svolta decisa, riassumibile nella frase che Ferdinando II di Borbone pronunciò nel salire al trono e nel dare avvio al risanamento finanziario del Regno: Il tempo dei pappagalli è finito. Non è più tempo di avere facoltà o cattedre decorative, in cui si insegnano principi generali perché non si è capaci – o non si ha l’esperienza – per insegnarne l’applicazione pratica.
I nostri giovani viaggiano alla velocità della luce in un mondo in cui scegliere una facoltà, seguire un corso o meno, dipende dall’utilità pratica che essi ne ricaveranno. Sono insofferenti verso gli insegnanti pletorici o teorici, verso i quali nutrono il normale fastidio dovuto all’età, cui si accompagna una consapevolezza nella determinazione nelle scelte che le generazioni passate si sognano. Il mondo per loro è instabile, veloce e pericoloso, e non hanno il tempo o la voglia di aderire a schemi di insegnamento del secolo scorso.
La nostra cara Alma Mater federiciana, e in linea generale tutto il sistema educativo italiano dovrà rapidamente adattarsi a questo nuovo mondo, o soccombere ai sistemi esteri quando a breve l’intelligenza artificiale consentirà ai ragazzi di seguire da casa una lezione tenuta da un professore cinese impiegato dall’università della California, che parla la propria lingua e viene tradotto in italiano in tempo reale.
Ci vediamo l’anno prossimo a via Mezzocannone.