Siamo tornati al 2003, quando il Catania di Gaucci mise in crisi la giustizia sportiva italiana che continua a vivere una realtà parallela
Sembra lontano il 2003, quando il Catania di Gaucci mise in crisi la giustizia sportiva italiana e costrinse addirittura il Consiglio dei Ministri a pronunciarsi con il blocco delle retrocessioni, per garantire la continuità dei campionati di B e C. Con un dominio di promozioni e retrocessioni, il campionato di B 2003/04 si giocò addirittura con 24 squadre.
Anno domini 2022/23. Reggina e Lecco hanno messo a nudo tutti i problemi di un calcio italiano che non vuole prendere in alcun modo coscienza delle criticità strutturali che lo caratterizzano, per imboccare finalmente la strada del cambiamento. I calabresi hanno penato tutta la stagione per via dei problemi economici e societari, per i quali hanno ricevuto punti di penalizzazione (poi in parte revocati). Una situazione figlia di un monte debitorio importante (25 milioni di euro), che ha portato il club a saltare le scadenze fiscali. Il Tribunale infatti ha congelato tutte le spese non correnti (incluse le tasse) al fine di verificare un accordo definitivo con i creditori, arrivato a metà giugno. I lombardi invece scontano le carenze strutturali dello stadio, la mancata individuazione di un’alternativa provvisoria dove giocare, in attesa dell’adeguamento del Rigamonti e il conseguente caos societario nell’iscrizione al campionato di competenza.
Senza entrare in ulteriori dettagli, appare però evidente come il calcio italiano non sia in grado di imparare dai propri errori. Quali? L’incapacità di definire un processo di giustizia sportiva in linea con la vita sportiva dei campionati, eliminando la sovrapposizione giurisdizionale tra enti giuridici il cui unico collegamento di competenza è il grado gerarchico di potere. L’incapacità di creare un complesso di norme valide per tutte le stagioni, senza spazio per deroghe. L’incapacità di rendere obbligatorio il reporting preventivo e on going dei club iscritti alle varie leghe sul proprio stato di salute, rafforzando quindi i poteri della Covisoc. Prevenire è meglio che curare dice il proverbio ed è banalmente così che in Liga hanno risolto le esposizioni debitorie monstre dei club.
Con tutto il rispetto per i tifosi di Reggina e Lecco, che hanno l’unica colpa di vivere impotenti una situazione che non possono cambiare, è assolutamente inconcepibile che nella stesura dei requisiti di impiantistica sportiva le istituzioni calcistiche siano cieche e reticenti ad una semplice analisi del contesto del tifo italiano. Si propongono, quindi, requisiti di impiantistica sproporzionati rispetto al seguito del 90% dei club. Si obbligano, ma non si supportano i club nel cambio di passo verso una modernizzazione più che necessaria, per rendere il prodotto calcio italiano sicuro e godibile. Invece no, meglio quattro tubi innocenti o un cambio di “residenza calcistica”.
Piangere lacrime amare perché il prodotto poi non si vende, è lo specchio di quello che il calcio italiano è oggi: il perenne “tirare a campare”. Per quanto ancora?