Valerio Bianchini: «Il tiro da tre mi annoia. Il basket è diventato come il calcio, sempre uguale»
Gli 80 anni del grande tecnico a Repubblica: «Era un gioco da 5 contro 5, con il pick and roll è diventato un confronto a due. Pozzecco? Piace alla gente».
Db Torino 16/02/2012 - coppa Italia / EA7 Emporio Armani Milano-Canadian Solar Bologna / foto Daniele Buffa/Image Sport
nella foto: Valerio Bianchini
Valerio Bianchini un mito per lo sport italiano. Unico allenatore di basket ad aver vinto tre scudetti con tre squadre diverse: Cantù, Roma, Pesaro. Memorabile lo scudetto vinto con Roma nel 1983 con Larry Wright playmaker. Repubblica, con Emanuela Audisio, lo intervista per i suoi ottant’anni. Parentesi napolista: suo figlio, Tommaso, lavora per il Napoli, direttore commerciale.
Scrive Audisio:
A 60 anni smise di fare l’allenatore di basket per diventare piccolo libraio a Roma, a 70 si diede al team-building (discorsi motivazionali) e ora a 80 ci tiene a dire che non fa il nonno. «Mi dedico finalmente alla mie passioni: gallerie d’arte, musica, letture, soprattutto saggi».
«A rovinarmi sono stati due film: Improvvisamente l’estate scorsa e Psyco, mi affascinava la psicanalisi, ma a Milano la facoltà di Psicologia non c’era e Medicina non faceva per me, così mi iscrissi a Filosofia, fulminato da Lo Straniero di Camus».
L’avversario più ostico?
«Sempre Dan Peterson perché era quello con più glamour e valore. Rappresentava Milano e la sua task force. Ci siamo confrontati tante volte, la sua difesa laser con Mike D’Antoni metteva paura. Batterlo è stato un lavoro complesso, prima con una squadra di provincia, poi con quella della capitale che però nel basket non lo era. Era una Roma uscita dalla Dolce Vita, che si toglieva dalle spalle la polvere della città ministeriale: con Liedholm e Falcao vinceva lo scudetto nel calcio, piccole aziende digitali nascevano, c’era un risveglio».
E non va pazzo per l’Nba.
«Non sono per un basket dove l’unica cosa che conta è far canestro e prendere rimbalzi. Ma sono tra quelli a cui l’America ha insegnato, mi piace la loro tradizione dei college, dove i professori fanno gli allenatori e dove c’è spirito universitario, ricerca, sperimentazione. Il basket, un gioco aperto che si svolge al coperto, ha sempre favorito evoluzione e rinnovamento, non come il calcio sempre uguale a sé stesso. Invece ora si è fermato. Ricordo quando Bill Bradley a metà anni 60 arrivò a Milano, prima di allenarsi faceva stretching, parola a noi sconosciuta, i vecchi lo prendevano in giro: questo sta sempre sdraiato, non vuole faticare, altri dicevano che doveva solo sgranchirsi dopo il viaggio aereo. Gli ho visto fare prima della partita una cosa che nessuno fa più: iniziare a tirare da sotto canestro, poi facendo un passo indietro, poi un altro, fino a dieci passi. Metteva a punto il suo meccanismo, ma oggi c’è il tiro da tre, con quello si risolve tutto. Posso essere contro? Mi annoia. Era un gioco da 5 contro 5, con il pick and roll è diventato un confronto a due».
Non le piace Pozzecco ct?
«Petrucci lo ha scelto perché sa comunicare. La sua aura è l’emotività. Pozzecco è irrefrenabile, compartecipa e condivide. Si agita molto, piace alla gente. Bene, bello, può funzionare qualche volta, ma un ct ha una figura diversa. Deve dare luce a tutti gli allenatori, insegnare, fare scuola, siamo andati tutti a bottega da Paratore, Primo e Gamba».
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