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Vincenzo D’Amico custode della lazialità, rimase da solo a difendere la leggenda del 74

La morte di una bandiera tra la drammaturgia di una squadra che ha vinto poco ma che è una pagina indelebile del calcio italiano

Vincenzo D’Amico custode della lazialità, rimase da solo a difendere la leggenda del 74

Nelle piazze dove si è vinto storicamente poco, qualunque giocatore può diventare un idolo. Il bomber grezzo, il rincalzo di cuore, la promessa mancata, il giocatore sfortunato, arruolati anche loro. Poi però succede che si vince davvero, si vince perché si è forti. Si alza la posta, avviene la scrematura. Quanti sono i giocatori che hanno vinto uno scudetto a Roma? A spanne neanche 150. Non proprio Gronchi rosa, ma comunque roba per happy few. Nella Lazio sono due le rose fortunate, potrei dire “immortali”, se non fosse che, passato mezzo secolo, dei giocatori scesi in campo a Lazio-Foggia maggio 1974, la partita che sancì lo scudetto all’Olimpico, sono morti Pulici, Polentes, Wilson, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi e da ultimo Vincenzo D’Amico. È morto anche l’allenatore Maestrelli, il primo tragico lutto. Nel frattempo è morto anche mio padre, un tifoso come tanti, presente sugli spalti quella domenica.

La drammaturgia laziale del 1974 è storia nota, ma il destino si è accanito pure sul più giovane degli scudettati. Indelicata si fa adesso la conta dei vivi, “siamo rimasti in cinque, cinque contro tutti” ha scritto su facebook Luigi Martini, il megafono più autorevole tra i giocatori del ‘74. Nulla di nuovo però, anzi. Benvenuti dentro la faglia del dolore che ha segnato il tifo laziale per quasi 15 anni. L’emozione di un successo eccezionale, il primo scudetto a Roma dal dopoguerra, la certificazione di una squadra esplosiva, il prezzo da pagare da subito altissimo con la perdita irrecuperabile del patriarca allenatore (1976) e del biondo centrocampista (1977), poi l’angustia del declino sportivo, sul campo e fuori, su cui cala nel 1979 come una pietra tombale la ferocia e l’orrore della morte allo stadio del tifoso Paparelli. Anni non richiesti e indesiderati ma fatalmente di formazione per due generazioni di tifosi.

Col senno del poi, lo scudetto 1974 è certamente il big bang laziale, secondo solo alla fondazione dei pionieri. È il precedente, l’esempio da cui verranno le nuove statistiche della Lazio, i record dei giocatori (anche l’ultimo baluardo di Piola è superato), le bacheche, i palmares, altri campioni. Ma dopo l’exploit, per il resto del decennio, Lazio abbandona il vertice e inizia a scendere:  4°, 13°,  5°, 10° e  8°. Nella stagione 1979/80 di scudettati ne sono rimasti tre: il capitano Wilson, il golden boy D’Amico e l’ala Garlaschelli, più l’allenatore Lovati, già vice di Maestrelli e factotum per ogni crisi laziale. La Lazio arriva 13° e si salva ma viene retrocessa per il calcio scommesse. Wilson, radiato, non conoscerà mai la B. In B scende il solo Garlaschelli perché D’Amico viene sacrificato e ceduto al Torino. L’estate del 1980 è il punto di massima nebulizzazione del gruppo del 1974.

È qui, al piano di sotto del Destino e della Fortuna, in soccorso dello scoraggiante e triste epilogo del 1974, che nasce l’ortodossia del tifo laziale, la Lazialità, termine inventato a metà ‘80 da Guido De Angelis, la voce più famosa dell’etere laziale. Studiosi dilettanti, giornalisti accorati, custodi autoeletti, ultrà prima maniera, sciamani radiotelevisivi, tutti con lo stesso obiettivo: non abbandonare la memoria dello scudetto minacciata da morti, fughe e ritorni disastrosi, scandali e retrocessioni. Rimettere insieme i cocci e i reduci a ogni possibilità di ricordo. La Lazialità come reazione alla paura di fare la fine “dell’acquarello che scolorirà”, cantato con successo dal brasiliano Toquinho, canzone in voga negli anni della Roma dei trionfi giallorossi, quella fortissima che va dallo scudetto 1983 alla finale di coppa campioni 1984.

Oggi la missione è compiuta. Di tanta storia romana quella della Lazio del 1974 è la meno archeologica: si fa finta di scavare quello che si sa già perché si sa praticamente tutto, con aggiornamenti continui che neanche Apple, il museo del 1974 è sempre aperto. Ogni tanto arrivano gli autori di fiction, sanno dell’Eldorado ma naufragano perché ragionano per flash, simbolismi, simulacri. Hanno fretta di ricreare l’epopea, producono sintesi da laboratorio senza aggiungere nulla. La Lazio 1974 vista come uno dei tanti fondali di Roma, non come una parte reale della città. Invece grazie al racconto orale delle radio locali, quella Roma laziale per la prima volta vincente è stata sviscerata fino all’esaurimento. I giocatori del 1974 sono stati intercettati, stanati dall’oblio, cooptati nei palinsesti, e diventati voci, e non più maglie, familiari a chiunque. In realtà D’Amico con la sua carriera da commentatore televisivo era l’unico a non dover essere recuperato.

Casomai, a mancare ancora è il racconto sul fondale sfasciato, sull’eredità di quella stagione, su una tifoseria emotivamente ostaggio di quell’annata clamorosa. Non su Chinaglia di cui sappiamo tutto, ma su quei padri anonimi e silenziosi, col vizio della domenica calcistica, che non pensavano fosse possibile vincere uno scudetto da leoni e che col magone ancora in petto furono lasciati orfani di tanta kryptonite. Servirebbe un James Cameron, nato qui da generazioni, per andare a illuminare il peso del dopo, la risacca della fine, i resti dell’epopea, il dramma del declino vissuto come privato ma identitario.

Negli anni 80 la Lazio gioca 6 dei suoi complessivi 11 anni di B, quattro ne giocò negli anni Sessanta. D’Amico ne gioca tre, non di seguito perché in mezzo ci sono due sofferti anni di serie A. Quando chiesero a Dario Argento, “le fanno piú paura i corridoi bui o la Lazio in Serie B?”, il maestro rispose: “Sembra strano ma mi fanno ancora paura i corridoi bui». Più della mortificante serie B, la morte di Paparelli condizionò mio padre nel portarmi allo stadio con continuità. Nella nebulosa di ricordi affiorano i commenti paterni mentre entriamo e usciamo dallo stadio, l’atmosfera è sempre la stessa: l’ultima spiaggia, l’adunata per la patria, la partita da dentro o fuori, e mai una finale di coppa. Una matrice che mi fece associare Lazio Catanzaro, Lazio Varese, Lazio Catania in un’unica grande partita melodrammatica. Incontri invece ognuno con la propria cifra, su cui la Lazialità ha sfornato tesi di laurea e dottorati. Tra le poche mie certezze dell’epoca, c’era sempre la testa riccia di D’Amico, l’unico rimasto con le stimmate della vittoria del 1974.

Nel pericoloso saliscendi laziale tra serie B, presidenze precarie, tra cui il generoso ma fallimentare ritorno da dirigente di Chinaglia e chi pensava di comprare la Lazio col fatturato da commercialisti, tra rose scarse e squalifiche in cui incapparono anche le nuove leve cresciute in casa, Giordano e Manfredonia, su cui nonostante il valore e l’hype fortissimo non si edificherà nessuna nuova chiesa, e che finiranno a Napoli e Juventus (Manfredonia poi persino alla Roma, facendo scandalo), D’Amico si è ritrovato a reggere da solo il mondo Lazio come Atalanta, accollandosi la leggenda del 1974 di cui era parte, e respingendo l’idea che potesse finire tutto il resto.

Sopravvissuto a se stesso, cioè al cliché di genio e sregolatezza, e rimasto lontano pure da qualsiasi tentazione di maledettismo, D’Amico ha vestito la maglia della Lazio fino al 1986, raggiungendo lo status di bandiera, vedendosi riconosciuta la responsabilità del capitano nei momenti decisivi. Come recita la battuta yiddish, è rimasto a bottega mentre qualcuno guardava altrove. Si è barcamenato da leader in anni ambigui, smarriti, pieni di trappole, senza mai pagare dazio a punti oscuri. Non è caduto nel calcio scommesse, non ha mai creduto nel trasferimento al prestigioso Torino, tornando subito a casa, persino in B. Ha tenuto testa alla Roma più forte di sempre, forse proprio per questo guadagnandosi il rispetto dell’avversario. Se Chinaglia ha traghettato la Lazio dalla insignificante sponda degli anni 60 alla leggenda del 1974, D’Amico ha tenuto la spiaggia in attesa che arrivassero i rinforzi.

Quando nell’estate 1986 arriva la sentenza della penalizzazione di nove punti per il nuovo campionato cadetto, l’allenatore Fascetti esclude D’Amico per scelta tecnica. Le ultime speranze per la Lazio 1974 di non morire calcisticamente furono affidate a un gruppo lontano da qualsiasi pagina del 1974. La squadra salvò stessa agli spareggi, salvò il club, salvò anche quello che non poteva sapere, altro capitolo su cui la Lazialità ha scritto le sue guide totali e definitive. Nel 1987-1988 la Lazio arriva terza e risale in A. Da quel momento non è mai più retrocessa.  Quest’anno la Lazio ha giocato il 35° anno dalla risalita in serie A, l’80esimo in totale. Nella classifica per presenze in serie A dei club, è sesta dopo Fiorentina, Milan, Roma, Juventus e la mai retrocessa Inter (91 stagioni). Ha più campionati in A di Torino, Napoli, Bologna e Sampdoria. Le prime dieci squadre hanno vinto almeno uno scudetto, quattro sono persino fallite e rinate. 11esima è l’Atalanta con 62 campionati, mai arrivata prima. Tra le scudettate è fallito anche il Verona, che ha solo 32 campionati in A. Il glorioso Genoa ne ha 55, il Cagliari giocherà il 43°. Della storia di Pro Vercelli, Casale e Novese si sono perse le tracce.

“La memoria è una cosa pericolosa perché il ricordare le promesse semplicemente fa soffrire” ha detto il giornalista Tiziano Terzani in un giorno del 1985 per le strade di Saigon. Vincenzo D’Amico ha mantenuto la sua promessa a Roma, “nella vita non volevo fare il calciatore, io volevo fare il calciatore della Lazio.” E nella città dove si è vinto storicamente poco, ha portato la croce del suo club, nel ruolo straordinario di quello che con quella maglia aveva vinto subito, da protagonista. Per questo D’Amico, campione d’Italia e bandiera laziale, è persino un pezzo di Roma, al pari di grandi attori, architetti, politici e assessori alla cultura.

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