Non è esistita alcuna macchina perfetta di Spalletti. Il Napoli ha vinto e ora siamo in hangover. Il presidente lo sapeva, il resto di Napoli no
Era difficile immaginare il tempo successivo allo storico terzo successo del Napoli come qualcosa di diverso da un risveglio dopo una prolungata, dolcissima e profondissima sbornia. Era difficile ma pochissimi ci hanno creduto e tuttora ritengono di ritrovarcisi. Tra questi sparuti c’è stato, assai probabilmente, il presidente De Laurentiis, nella mente del quale la certezza di essere impossibilitato a fronteggiare qualunque evento, dopo cotanta sbornia, lo ha condotto a un corretto esercizio economico di ripiego – qualsiasi investimento avesse effettuato; qualunque team di lavoro avesse convinto a rimanere; qualsivoglia contratto avesse rinnovato, non avrebbe in alcun modo evitato l’hangover che è necessario attraversare all’indomani di una festa molto allegra. A Napoli, poi.
Anche adesso, come in ogni residuo di sbronza, esiste una realtà che è così evidente nei fatti da risultare quasi accecante e miliardi di interpretazioni che circolano nelle menti frastornate di milioni di tifosi ancora in stato di post-coma etilico. Oltre al noto gruppetto di quelli che continuano a sostenere: “Te l’avevo detto che non dovevi esagerare” che, per chi ha conosciuto il potere dionisiaco, sono da sempre i più molesti. Ad ogni divaricazione tra realtà e immaginazione si costruisce una retorica, un vuoto a perdere di parole che servano, nella coscienza collettiva del tifo, a dar significato ad eventi che significato non ne hanno.
La prima realtà è apparentemente nascosta in un termine – “straordinario” – che tutti adoperano senza curarsi tuttavia del suo significato. Quella passata è stata una stagione stra-ordinaria in quasi ogni suo aspetto perché moltissimi avvenimenti sono accaduti assieme ed in un contesto eccezionalmente favorevole. Il Napoli ha rinunciato ai propri giocatori fondamentali per motivi di cassa. L’allora direttore sportivo ha fatto un buon lavoro, specie nel venderli, ma non aveva idea di quello che sarebbe accaduto con i nuovi acquisti. Non era un genio, altra parola abusata. L’allenatore della scorsa stagione probabilmente conosceva poco o pochissimo dei neo-arrivati e in qualche modo ha fatto capire, al principio, che chi era partito era di ben altra pasta. Neppure lui era un genio. Non essere un genio non è un crimine. Ha fatto un ottimo lavoro nel lasciare che le cose accadessero, che pure è un talento: i nuovi non parlavano italiano, non avevano alcun legame territoriale, volevano solo giocare e provarsi capaci ed all’inizio, complice una ragionevole ignoranza anche nel campionato italiano, vennero lasciati liberi di scorrazzare nelle aree di rigore avversarie. Al termine del girone di andata il Napoli era già avviato al successo. È il piano inclinato della gioia, se l’avete mai conosciuta.
Qui inizia lo iato da realtà e fantasia. Tra fatti e interpretazioni che le menti delle persone forzano su questi fatti. Non è esistita mai alcuna macchina perfetta di Spalletti. Francamente, fu chiaro da subito. Nel girone di ritorno il Napoli inizia a zoppicare, a perdere fiato e partite, esce molto male dalla Champions che all’epoca tanti dicono che gli azzurri possano addirittura vincere (qui il delirio sublima in arte e chi rintuzza: “Eh ma l’Inter c’è arrivata in finale” non ignora certo il calcio ma la logica del prim’ordine). Il Napoli fallisce un match-ball incredibile, in un giorno dove tutto fila giusto, in casa, contro la Salernitana. Vince il campionato pareggiando in rimonta a Udine una gara messasi male. Trionfa meritatamente in un campionato riposto al sicuro prima della sosta invernale, in cui l’inadeguatezza delle squadre italiane concorrenti è grottesca.
Lo iato continua. Spalletti dice di voler riposare. È ragionevole pensare che abbia capito bene come stiano le cose – il dopo sarà un risveglio mostruoso. Qui si fa spazio la nuova vuotezza delle parole. Qui si tessono le retoriche del riposo in campagna da un lato e del presidente che deve concedere al suo ex allenatore di fare il commissario tecnico della nazionale a costo zero dall’altro – deliri e contro-deliri, in una fuga bachiana. Tutto fuorché la realtà: Spalletti voleva legittimamente evitare l’hangover, il presidente voleva tenerselo per scaricare un po’ di nausee e mal di testa su di lui. Cose note.
Prima che giunga il nuovo uomo del destino, si produce la nuova retorica vaneggiante della “prima scelta”. L’allenatore di prima scelta. Qual è la prima scelta? Chi rappresenta la prima scelta? Arriverà una prima scelta? Tutta l’estate si viaggia su analogie che ricordano i filetti e i controfiletti in macelleria. Come se un presidente avesse un quadernino con la lista da uno a dieci, una via di mezzo tra l’agendina di Minà e il taccuino di Verdone in cerca di compagni di viaggio a ferragosto. Guarda caso nessun nome altisonante si presenta. Che strano. Qui si fa strada la retorica farneticante del presidente antipatico: non viene nessuno perché De Laurentiis è difficoltoso. È antipatico. È accentratore. Fa contratti lunghi. Vuole dimostrare di essere infallibile. Stiamo parlando di contratti da milioni di euro sottoposti al vaglio della capacità di un datore di lavoro di raccontare le barzellette. A nessuno viene in mente una banalità: forse non viene nessuno perché nessuno demiurgo è stato seriamente ingaggiato. Forse De Laurentiis conosce il dopo e sa che spendere fior di milioni per entrare in un delirio napoletano è assolutamente antieconomico oltre che inutile. E lo dice egli stesso, in estate, che a rivincere non ci pensa neanche. Non ci sono riusciti Maradona Careca e Giordano, perdendo sotto l’umiliazione (rimossa) del Milan sacchiano. E l’errore l’ha già commesso lui stesso chiamando Ancelotti a valle dell’esperienza Sarri, in un epilogo tragico ed un collasso finanziario notevole.
Perché – c’è da rifletterci – il sarrismo che Napoli ha conosciuto si è ripresentato sotto nuove spoglie nell’anno del terzo scudetto. In fin dei conti, il sarrismo è solo una delle molteplici incarnazioni del disperato odio che Napoli ha per la realtà ed il bisogno costante che sente di forgiarne una o molte parallele a sostituirla. Non è esistito alcun genio spallettiano. Lobotka non era Iniesta. Kvara non è George Best. Osimhen non sarà Careca. È accaduto che buoni, ottimi giocatori si siano trovati nel posto giusto al momento giusto e un ottimo allenatore abbia fatto il necessario damage-control per evitare collisioni, per costruire un collante. È la storia di moltissime delle grandi missioni che hanno avuto storicamente successo. Lo stesso approccio teologico alla realtà che si è visto nel sarrismo – e che si rivede ogni anno in questa pantomima chiamata scioglimento del sangue di San Gennaro, cui partecipano tutte le istituzioni incravattate come se fosse effettivamente una cosa seria – si rivive oggi nel Napoli post-scudetto e nella pervicace volontà di rifiutarsi di riconoscere anche al caso una fetta importante della nostra felicità.
Giunge quindi il nuovo uomo del destino. Si chiama Garcia. Garcia, sia chiaro, non ha alcuno scampo. È una figura sofoclea. Euripide avrebbe ammazzato per un personaggio del genere. A De Laurentiis serviva un agnello, concesso alla Napoli post-scudettata, da sacrificare sul Golgota della grandeur calcistica cittadina. Anche qui, c’è realtà, finzione e retorica. Garcia arriva a Napoli con un curriculum equivalente, se non in parte superiore, a quello di Spalletti. Ma non conta. Con Garcia il Napoli fa alcune partite di ottimo livello. Ma non conta. Con Garcia si vedono gli stessi cambi che si vedevano con Spalletti. Ma non conta. Lo spogliatoio è compatto, al netto dei mal di pancia ovvi di chi vuol giocare sempre. Ma non conta. Il ventre cosmico della città ha già decretato: parla francese in allenamento, i difensori non marcano sui calci d’angolo, ha mandato dal presidente di far giocare tizio e caio, ha vinto una partita di Champions ma a culo.
La realtà sta lì; alla finestra, facile facile: l’attaccante del Napoli che lo scorso anno decretò la vittoria, quell’attaccante di cui tutti noi portiamo la mascherina, quest’anno ha fallito un rigore decisivo senza neanche lambire la porta. Ma non conta. E non conterà.
Garcia non è Benitez e non è Ancelotti – ovvero, per chi scrive, gli unici due allenatori professionisti che il Napoli ha ingaggiato, nel passato recente, con una capacità intellettuale di avere un impatto su – e oltre – uno spogliatoio. Fatti salvi questi sparuti esempi, e messi a margine finzione e retorica, la differenza tra un allenatore e un passante messo in panchina è riscontrabile solo ad attente analisi condotte col microscopio elettronico. Sempre per chi scrive, la retorica dell’allenatore è grossolana in qualunque senso – ed è funzionale alla retorica di noi, i più anziani, che in questi altrettanto anziani signori in giacca e cravatta ci rivediamo. In loro, piuttosto che nel vigore di calciatori ventenni. È retorica da vecchietti che pensano che uno che grida in panchina valga il gol di Kvara contro l’Atalanta lo scorso anno. Ciao, core.
Il calcio è semplice. Il Napoli ha vinto quando segnava a raffica. Era in vantaggio prima ancora che l’avversario potesse capacitarsene, rendendo il loro compito così arduo da far preferire l’abbandono per manifesta superiorità. Non sono cambiati gli uomini, si sono modificati i desideri e quelli, se cambiano, poi mordono. Ma la realtà non è sostanzialmente mutata.
Ricordate lo scorso anno, ringraziate per la gioia gratuita, abbandonate le idee e i preconcetti e portate un po’ di pazienza: Garcia vi apparirà un allenatore capace con un compito impossibile.