A La Repubblica: «C’è il rischio che l’arbitro in cabina solidarizzi con quello in campo. Serve una distanza che il campo non ti dà, perché è passione».
La Repubblica intervista Massimiliano Irrati. Racconta, tra le altre cose, la sua decisione di rinunciare a dirigere le gare in campo per scegliere di stare solo al Var.
«Arbitrare con gli auricolari fu un trauma. Mi destabilizzò al punto che all’esordio, nell’intervallo, chiesi ai guardalinee: se riuscite, non mi parlate, sennò non capisco nulla».
Una scelta, quella di sedersi dietro al Var, che, spiega Irrati, è stata spontanea, «senza che nessuno me lo chiedesse» e ne spiega i motivi:
«Perché è un’attività talmente specializzata che serve farlo per il 100% del tempo. In campo serve avere un impatto anche irruento con i calciatori, in cabina no. Un Var deve essere stato arbitro di alto livello, o almeno della stessa
categoria in cui va a operare. Ma anche Uefa e Fifa hanno preso questa strada: quando diventi élite fai solo una delle due».
Fare entrambe le cose è rischioso.
«L’ho provato sulla mia pelle: quando sei arbitro pensi sempre a quello, ti alleni per quello, ma poi se vai a fare il Var puoi essere focalizzato anche sull’aspetto arbitrale: non dico giustifichi la decisione presa sul campo ma rischi di solidarizzare con lui e anche se la decisione può essere sbagliata dici “so cosa si prova, non voglio rovinargli la giornata”. Non serve assolutamente questo, serve tecnica arbitrale e una distanza che il terreno di gioco non ti dà, perché è passione, coinvolgimento emotivo. Componenti che il Var deve il più possibile eliminare».
Irrati continua parlando della tranquillità che il Var deve trasmettere all’arbitro in campo.
«La tranquillità deve essere trasmessa all’arbitro, perché se l’arbitro sente un Var agitato, si chiede: sarà in grado di valutare serenamente? Ma vi assicuro che nella cabina non sei tranquillo, l’adrenalina è alta lì dentro: l’arbitro ha come paracadute il Var. Il Var non ha nessun paracadute».
È favorevole a trasmettere l’audio del Var in tv? Irrati:
«Spero non si prenda sempre solo l’audio della cosa che crea discussione. Avete sentito l’audio famoso di Juve-Bologna? Ecco, quel giorno ne abbiamo fatti sentire tre e si è parlato solo di quello. Ma forse se fa notizia solo l’errore, vuol dire che la normalità è che facciamo le cose bene sempre. Poi, se tu scrivessi bene 99 articoli e ti pubblicassero solo uno in cui hai fatto un errore, come ti sentiresti? Un Var non ha tanto tempo: se un arbitro ha un secondo, noi ne abbiamo dieci».
È vero che gli arbitri vengono scelti anche in base all’aspetto fisico? Irrati:
«C’è stato un periodo, è vero. Ora siamo tornati un po’ alla sostanza dell’arbitraggio. E con questo non voglio dire che i nuovi non siano bei ragazzi, ma si è capito che non basta. È un inizio, come ti presenti da arbitro un impatto può averlo. Ma è la sostanza che fa la differenza. L’arbitro ormai è un atleta come i giocatori».
Irrati sul rapporto con gli allenatori:
«A me interessa molto il loro punto di vista. A volte un movimento di un braccio a noi sembra naturale, loro ti spiegano: “Guarda che non lo è assolutamente”. Se su venti allenatori tutti ti dicono che un fallo non è rigore, vuol dire che non lo è. Noi valutiamo il fallo con il regolamento, ma ti devi adeguare».
Irrati si è mai sentito minacciato?
«Per assurdo, più sali in alto più sei protetto, nonostante ci siano più tifosi e più possibilità di interazioni. Il problema grosso è nelle categorie inferiori: l’ho vissuto direttamente, ma mai con aggressioni fisiche e mi ritengo fortunato. Non voglio dare responsabilità a un allenatore di Serie A se viene picchiato un arbitro in provincia. Ma certe scene di proteste non aiutano. Purtroppo però queste sono ormai la normalità, e non conta nord o sud: le aggressioni sono settimanali ovunque, in ogni sport, anche una lite a un semaforo può degenerare in cose più gravi».