Il Napoli è un gruppo di giocatori di ottimo livello, ma non di primissimo livello. Era il calcio sistemico di Spalletti a farli rendere di più
In uno stadio che mi ricorda, un po’ più in grande (ovviamente), uno di quelli in cui nella provincia del lodigiano si giocano le partite di serie d, quasi pittoresco per come è strutturato (per chi vedeva la partita: a destra con al posto della curva una roccia di quelle usate per le esercitazioni di free climbing, a sinistra con al posto della curva quella che al buio sembrava essere una duna di sabbia), contro una squadra che forse non passerebbe un girone di Conference League, si è ieri consumato un altro strazio (per la percezione di chi scrive, si intende).
Letteralmente e concettualmente un altro strazio.
Poteva essere, questa partita, la salvifica “variante di Lüneburg” (consiglio a tutti, per apprenderne significato e concetto esistenziale, prima ancora che scacchistico, di leggersi il bellissimo omonimo libro di Paolo Maurensig), per effetto della quale sacrificare la vittoria con una sconfitta che avrebbe davvero messo chi di dovere con le spalle al muro, inchiodati alle loro responsabilità per tutto ciò a cui si sta assistendo (soltanto un anno fa, ricordo, stavamo massacrando e strapazzando il Liverpool davanti agli occhi del mondo intero, lo ricordo giusto per dovere di cronaca), finalmente in grado di capire che non c’è più tempo da perdere.
Invece si è vinto, e sento dire (e leggo) che era la cosa più importante di tutti, un po’ come da pensiero bonipertiano, nella speranza che anche così tutto poco a poco torni a sistemarsi.
Io mi riallaccio a ciò che scrissi da ultimo: non solo gli allenatori contano, anzi contano tantissimo e sono in grado di fare la differenza, ma a maggior ragione questi contano quando hai una rosa che, seppure molto competitiva, ancora non è, né forse mai potrà essere, al livello di quella del Real Madrid o del City (per intenderci).
Ecco, in questo caso – ed è il nostro caso – il calcio d’insieme, di “sistema”, quello la cui organizzazione forsennata, preordinata e maniacale può andare a supplire e colmare quell’ipotetico ultimo metro che separa il valore dei tuoi giocatori da quello eccelso di simili squadre, l’allenatore che sappia lavorare su questo diventa egli stesso quel valore che manca, e quindi il valore aggiunto.
Io speravo che l’avessimo capito dopo le esperienze di Mazzarri, Sarri e Spalletti, i quali, ciascuno a modo suo, già impostato per un approccio calcistico in tal senso, avevano capito l’importanza di tutto quanto sto parlando e avevano di conseguenza impostato lavoro, squadra e uomini nell’ambito di un calcio sì ossessionatamente legato ad un’organizzazione di insieme, ma anche per ciò in grado di farti competere a livelli ai quali, in mancanza, per valore in sé dei singoli giocatori non saresti potuto arrivare.
E speravo che l’avessimo capito, “a contrario”, con le esperienze di Ancelotti e Gattuso: due allenatori che nemmeno possono stare nella stessa frase, ma che – ciascuno a modo suo (il primo perché fermamente convinto che esista un calcio di principi che non può che lasciare responsabilità e libertà di attuazione ai singoli; il secondo perché per chi scrive non all’altezza di allenare a questi livelli) – avevano fatto capire cosa succede quando non alleni come gli allenatori sopra citati un gruppo di giocatori come quelli del valore che il Napoli aveva ed è destinato ad avere (per capacità economiche e di attrazione calcistica).
E cioè, e qui è bene fissarcelo nella mente, un gruppo di giocatori sicuramente di ottimo livello, ma non di primissimo livello (se non in alcune rarissime eccezioni: ma il valore di un paio di giocatori non fanno il valore della media dei giocatori), i quali tuttavia, se allenati alla partita con un’importante e dettagliata organizzazione di schemi e di “sistema”, possono cercare di competere contro chi è nei singoli più forte.
Invece no, non lo si è capito, e si è nuovamente commesso l’errore di mettersi in mano ad un allenatore che non solo non ha l’idea di approccio al calcio che ho sopra descritto, ma pure sembra presuntuosamente andarne fiero allorquando l’idea contraria che ha di calcio la cala nel “contesto Napoli”.
La prova del 9 della tesi in discussione sono, per esempio, proprio Lobotka e Anguissa: due giocatori di notevole valore (ma non di primissimo valore: per intenderci, non sono, rispettivamente, Xavi o Rijkaard), i quali se in un’organizzazione di calcio di sistema (che tra l’altro presupponeva risalite del campo giocando, in prima costruzione, corto ed insieme ai “rinterzi” usati come sponde per liberarsi dal pressing) hanno fatto vedere cose eccelse, in un calcio presuntuosamente privo di queste caratteristiche sembrano due giocatori, prima ancora che normali, addirittura scarsi.
Insomma, per intenderci, Modric gioca e stupisce in qualsiasi tipo di contesto di gioco, Lobotka no, perché in grado di stupire solo all’interno di un meccanismo di gioco pre-organizzato e tipicizzato (come quello spallettiano).
E non è un caso che Di Lorenzo – l’unico, come detto, secondo me in grado di giocare titolare nel City (che qui serve come termine di paragone astratto per illustrare la tesi in argomento), e quindi l’unico che preso singolarmente si avvicina alla caratteristica del campione vero, fluido e “liquido” (perché questo è il capitano del Napoli) – sembri non perdere valore di prestazione e non accusare il cambio di approccio alla partita in questione.
E, si badi bene, pure Osimhen e Kvaratskhelia non si sottraggono alla tesi ed alla prova del 9 di cui si discute, avendo dimostrato in queste prime partite, essi stessi per primi, come perdano di valore le loro prestazioni senza quell’organizzazione di gioco, senza quei movimenti sincronizzati e senza quelle giocate tipicamente pre-ordinate dei compagni in grado di servirli o liberarli nell’esecuzione delle cose che meglio sanno fare.
Insomma, non si è imparato nulla dal passato, e questo non stupisce, data la natura umana e le caratteristiche caratteriali di chi decide per il Napoli.
Ed allora, avanti così: ti voglio vedere dopo che si consolideranno i reali valori del singolo senza l’organizzazione di cui parlavo se davvero ci si potrà permettere di dire che con 200 milioni di euro non ci si compra nemmeno un piede di Osimhen.
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Il primo gol del Napoli lo segna Di Lorenzo, che calcia al volo di sinistro (non il suo piede) un pallone che gli spiove addosso dopo un contrasto areo tra Osimhen e il suo marcatore: la palla, appena calciata, colpisce subito per terra e si alza improvvisamente, auto-imprimendosi una traiettoria a salire che diventa imprendibile per il portiere.
Eccola qui, la stoffa del campione: quello che capisce l’essenzialità del calcio, che coglie la maggiore infinita possibilità di fare gol quando si è pronti a quante più soluzioni possibili nel frangente di gioco in cui si è protagonisti: in un mondo di giocate individuali figlie di vere e proprie coazioni a ripetere (per esempio: i tiri a giro sul palo lungo fatti dagli esterni che giocano a piede invertito sulla fascia di competenza e che solo questo sanno ed osano fare), Di Lorenzo (un difensore, nemmeno un attaccante) non esita a calciare con il piede non suo, più forte che può, un pallone che spiove in area e che così va calciato, a sfondare la rete: e poco importa se lo prendi male e va in tribuna.
Per inciso, la corsa verso i compagni e la panchina a me è sembrata più fatta come per dire “teniamo duro noi come gruppo/calciatori”, appunto quasi una certificazione del sentirsi avulsi dal gruppo più esteso che riguarda anche lo staff tecnico: ma forse sono io che mi illudo di vedere cose che vorrei ci fossero ma non ci sono.
Sul gol del pareggio subito dal Napoli, rimando a quanto scritto per la partita contro il Genoa: anche ieri sera, è facile vedere, per chi vuole e sa osservare, come Juan Jesus si perda e si faccia passare davanti il suo uomo (quello che colpisce la palla e fa gol) prima ancora che parta il cross dalla tre quarti del giocatore del Braga (cross? Io direi più una palla per allenare la difesa avversaria).
Eccezionale.
Il gol del 2 a 1, propiziato da una pittoresca autorete del difensore del Braga (un po’ alla Moreno Ferrario, e chi c’era in quell’aprile dell’81 sa, un po’ alla Niccolai), è frutto di un cross fatto dal fondo da Zielinski: un cross forte che sarebbe frutto di un lavoro ad hoc, anzi di un’idea ad hoc (quella per cui se calci forte è facile usare la sponda involontaria di un calciatore scarso? Mah..), ho sentito dire da Garcia.
E quindi, non posso che concludere.
P.S. Se negli ultimi dieci minuti ti metti a 5 dietro (anzi, a vedere certe immagini dall’altro, con una linea di difensori a 6 parallela a quella dell’aria) perché hai paura dei cross, forse è il caso di capire che se la prima linea di pressione è a 4, di avversari che possono crossare ne liberi almeno due per fascia.