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Perché Napoli non sente l’esigenza di unirsi in piazza dopo l’uccisione di Giovanbattista Cutolo?

Non ho mai amato le cosiddette manifestazioni. Ma dopo un simile episodio abominevole, servirebbe almeno a darsi speranza

Perché Napoli non sente l’esigenza di unirsi in piazza dopo l’uccisione di Giovanbattista Cutolo?
Napoli, Daniela Di Maggio la madre di Giovanbattista Cutolo il giovane ucciso a piazza Municipio per futili questioni di parcheggio , mentre depone i fiori ed un biglietto, dove è stato ucciso. (Salvatore Laporta / Kontrolab)

Lo scrivo e forse rischio di essere equivocato, in un’epoca in cui l’allineamento delle idee, su ciò che si può e si deve dire sembra talvolta più importante di ciò che realmente si pensa: non ho mai amato le cosiddette manifestazioni. Scendere in piazza. Ho sempre pensato che si trattasse di esercizi retorici, privi di una reale capacità di cambiamento. Forse perché sono cresciuto negli anni dell’edonismo spinto, gli anni 80. Anni che hanno chiuso i due decenni precedenti, durante i quali scendere in piazza aveva un profondo significato, fosse anche solo ideologico, e purtroppo lo si faceva anche a rischio della propria vita. Forse perché sono cresciuto, fortunatamente, ormai lontano da altri anni in cui manifestare era semplicemente proibito. Sta di fatto che ho sempre avuto la sensazione che starmene insieme ad altri per strada ad urlare slogan stantii fosse nettamente inutile, straordinariamente noioso.

Eppure oggi, appena sveglio, ho continuato ad avere dritta davanti ai miei occhi l’immagine di un ragazzo che fino all’altro ieri suonava – con grandi risultati a dire di chi ne può parlare – uno strumento musicale di cui io neanche conoscevo l’esistenza: il corno. Suonava. Cioè praticava un’arte antichissima che gli esseri umani hanno imparato per distinguersi dalle bestie, un’arte trasversale a tutti i popoli, a tutte le classi sociali, a tutte le razze.

Era un ragazzo napoletano e si chiamava Giovanbattista Cutolo. Aveva 24 anni. E l’altra sera, a Napoli, l’hanno ucciso. L’ha ucciso un altro essere umano, napoletano anche lui, di anni 16, per “ragioni” che nessuna persona dovrebbe mai neanche lontanamente immaginare. L’ha ucciso un altro essere umano che, come lui, come noi, senz’altro ascolta la musica, antichissima arte che ci distingue dalle bestie. Eppure qualcosa non ha funzionato. Cosa è potuto capitare ad un ragazzo che di 16 anni perché si comportasse non come essere umano ma come bestia? E cosa capita ad una città, la mia città, perché veda crescere nel suo grembo due ragazzi agli antipodi della civiltà: ad uno questa città ha messo tra le mani un corno, all’altro un’arma.

Giovanbattista ha nutrito quotidianamente l’amore per la musica, coltivando la sua passione. A Napoli. L’altro ha vissuto una quotidianità talmente terribile che, arrivato a 16 anni, si è ritrovato ad usare un’arma contro un ragazzo per “ragioni” che, ovviamente, non esistono. A Napoli. Non è il primo episodio di una violenza animalesca e insensata. E, purtroppo, non sarà l’ultimo. Inutile usare la retorica. Non sarà l’ultimo. Inutile credere che la morte di Giovanbattista serva ad evitare altre analoghe tragedie, come si userebbe dire in questi casi. Non servirà. Troppo grandi i problemi. Troppo incancreniti. Le metastasi sono ovunque. In una città dopata da un turismo inaspettato per le sue dimensioni che si autocompiace della sua stessa annichilente bellezza, della sua autoriferita unicità. Eppure la amiamo. E soffriamo. Certo, non capita solo qui. Certo, si dice, qui siamo permanentemente davanti ai riflettori. E con questo? Ci possiamo autoassolvere e possiamo considerare incidenti di percorso episodi come quello di un ragazzo morto ammazzato per un parcheggio?!

Ed eccomi di nuovo al principio e a cosa ha significato da sempre, per me, scendere in piazza: inutile esercizio di retorica.

E però oggi c’è un però. Però, mi sono chiesto, come mai non si sente forte l’esigenza di essere in migliaia di migliaia dopo un episodio cosi abominevole, fosse anche solo per urlare il dolore della città per un ragazzo che suonava il corno e che non potrà più farlo perché ha incontrato davanti a sé, nelle infinite casuali strade delle vita, un altro ragazzo che invece usava un’arma? Perché non si percepisce il bisogno di compiere l’unico gesto sensato? E cioè essere insieme. Non per chiedere inutilmente che questo sia da monito affinché queste tragedie non accadano più. Perché non servirà. Perché continueranno ad accadere. Ma invece unirsi per immaginare che questo serva a far rimanere in questa città coloro che hanno ancora la speranza di poterci vivere per suonare un corno e non per usare un’arma. La differenza è tutta qui.

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