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Brachetti: «Travestito da prete andai a trovare mia zia per l’estrema unzione, gridò: “Non sono ancora morta!”»

Al Corsera racconta: «Una volta grazie a quel travestimento un brigadiere non mi fece la multa mentre andavo a 70 all’ora su una strada da 50»

Brachetti: «Travestito da prete andai a trovare mia zia per l’estrema unzione, gridò: “Non sono ancora morta!”»

Il Corriere della Sera intervista oggi Arturo Brachetti nella sua casa magica che appare come un eterno gioco.

Parla dei suoi costumi, 450, che conserva tutti. Vuole essere seppellito con uno dei suoi Farc bianchi che usa nel finale degli spettacoli. Il costume da prete gli fu molto utile

«Grazie a quello un brigadiere non mi fece la multa mentre andavo a 70 all’ora su una strada da 50. Un’altra colta, con la complicità dei miei fratelli, andai a trovare mia zia per l’estrema unzione; lei aveva gli occhiali sul comodino, non mi riconobbe e cominciò a gridare: “Non sono ancora morta!”»

Della sua vita sentimentale non si sa nulla perché, come lui stesso dice, «nei suoi spettacoli sono come il personaggio di un popup». Poi confessa di essere innamorato «da tredici anni»

Di un uomo o una donna?

«Non glielo dico, altrimenti lo scrive Negli anni ’70-’80 la sessualità era molto più libera di adesso e tutti abbiamo sperimentato un po’ tutto, quindi anche io ho avuto delle relazioni sia di qua che di là»

Ricordi personali di quando era bambino

«Vivevamo in periferia, in una Torino in bianco e nero dove io sognavo a colori. Dal balcone vedevamo l’insegna del cinema Splendor: la guardavo come se fosse la scritta Las Vegas»

E il primo film

«Mary Poppins. Confesso che quando lo riguardo, la scena della vecchietta davanti alla cattedrale mi frega sempre e mi commuovo»

Un’anno fa a Libero Brachetti aveva raccontato di essere entrato in seminario a 11 anni, proprio per sfuggire ad un mondo che non sentiva suo

«I miei compagni mi infilavano dentro il bidone vuoto dell’immondizia. Non sapevo difendermi ma dentro di me cresceva la voglia di rivincita sociale e i giochi di prestigio sono stati il mio asso nella manica. Il brutto anatroccolo Arturo sapeva fare cose che lasciavano i miei coetanei a bocca aperta. Iniziai a conquistarmi rispetto ed ammirazione oltre al sostegno di don Silvio che un giorno mi disse: “Non è importante avere una vocazione religiosa, l’importante è avere una vocazione. Se la tua è quella di far sognare e sorridere, perseguila”. Uscii dal seminario a 17 anni con il senso della mia missione scolpito nell’anima».

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