A Repubblica: «Era solo una responsabilità, un lavoro, la pressione di dover migliorare sempre. Non esistono persone, solo gente»
Hernanes è un ex giocatore che ha lasciato il segno in Serie A. Prima con la Lazio con cui il brasiliano ha mostrato le prime capriole. Poi Juventus dove ha vinto anche uno scudetto e infine Inter. Dopo la Serie A ha scelto comunque di far girare il pallone, tra i dilettanti del Sale (Prima Categoria piemontese). L’intervista a Repubblica:
«Mi ero ritirato un anno fa, e il calcio mi mancava. Due amici mi hanno chiesto di giocare un’amichevole con la loro squadra. Mi è piaciuto, sono rimasto. Ho sentito profumo di aria buona».
Aria buona che non circola in Serie A:
«Io, da professionista non mi sono mai divertito, neppure con addosso la maglia del Brasile. Era solo una responsabilità, un lavoro, la pressione di dover migliorare sempre, più forte, più veloce, più vincente. Ci sono ragazzi che vanno via di casa a sei anni per sognare, e poi si perdono. Sono soli, nessuno li ama veramente. Sono così fragili. Non pensate che giochino d’azzardo soltanto per noia, o per malattia».
E allora il “perché” sorge spontaneo. Cosa manca ai calciatori?
«Forse un senso, quello che io ho ritrovato qui, in Prima Categoria. La gioia pura del pallone, la sua essenza. Ma non dimentico quanto ho sofferto. A sedici anni, dopo essere passato dal calcio a 5 a quello vero, stavo sempre in panchina, mi sentivo inadatto. Già non ricordavo più la felicità del calcio di strada, una sensazione che i miei giovani colleghi non hanno mai conosciuto. Sono obbligati a una vita senza certezza. Le famiglie li vedono partire, o li costringono a farlo sognando i soldi, senza sapere cosa sarà di loro. Allenatori e dirigenti sono bravi ad addestrare, e nemmeno sempre, ma non a educare. Il piccolo calciatore è già una merce. Può prendere qualunque strada sbagliata».
Eppure Hernanes qualche trofeo l’ha vinto. Possibile non aver trovato la felicità nemmeno in quei trofei?
«Era tutto un altro pensiero: facevi lo show, davi spettacolo, però eri solo. Nel calcio professionistico non esistono persone, ma gente».