Napoli ha una società bianca ed omologata. Quanti neri prof universitari o direttori di banca ci sono? Essere accoglienti non è difendere gli interessi di banda
Quasi mai, nella sua storia, il Calcio Napoli è apparso una piccola bottega di vita e affari a chilometro zero come nella vicenda del video su Osimhen, realizzato e postato nella piazza social. Una clip che, per il resto del mondo civilizzato, è razzista, punto.
Nella vicenda, va detto, la società ha assecondato e solleticato il ventre molle nazionale e cittadino che è apparso in tutta la sua vasta trasversalità sociale. A ritenere esagerate le reazioni del calciatore e del suo entourage, nonché dei principali organi di informazione mondiale che hanno riportato con sdegno la notizia, sono stati anzitutto molti dei cosiddetti intellettuali della città, ovunque sparsi nella nazione, oltre che una gran parte della stampa cittadina.
Come sovente accade quando indulge in questa iper-provincializzazione, la macchina di De Laurentiis ha puntualmente perso un’occasione rara di segnare una differenza valoriale importante tra visione locale e globale del mondo e delle persone, che ad oggi purtroppo ancora non esiste – il Napoli è infatti un esempio di gestione economica e finanziaria ma è ancora caratterizzato da una cultura spesso organica a quella stantia cittadina, cosicché alle finte scuse approntate alla bene e meglio da parte della società aveva fatto da apripista il solito striscione tardo ottocentesco della curva sul primo comandamento che detterebbe il rispetto della maglia. (I richiami quasi biblici della tifoseria sono sempre i più preziosi).
Nel resto del mondo civilizzato, invece, in cima c’è il rispetto delle libertà dell’individuo. Il primo comma a corollario dice che tale rispetto deve sentirlo e ratificarlo chi a una minoranza appartiene, non il gruppo nutrito della maggioranza che si scrive e si canta le canzoni di auto elogio. Questa è la differenza abissale ed incolmabile tra la passione cinghialotica e la passione sportiva. E questo è ciò che i Massive Attack hanno chiamato casual racism, ben peggiore e assai più radicato nelle società di quello canonico, perché oggi ad esserne pervasa è tipicamente la larga parte della comunità che trincera il proprio immobilismo ebete dietro l’urlo del politicamente corretto, come fanno in genere tutte le comunità imbolsite e incartapecorite in Europa e oltre.
La patente di antirazzismo è una delle numerose autocertificazioni che la città di Napoli si è regalata da tempo, in ultima analisi per due motivi di fondo: la certezza auto-alimentata di essere vittima di razzismo essa stessa e il costante parlare solo di quanto avviene all’interno delle proprie mura cittadine. Dovrebbero essere le istituzioni più internazionali e lungimiranti della città – e tra queste certamente il Calcio Napoli – ad aprire orizzonti e questioni su scenari cristallizzati dall’iper-localismo cittadino. Napoli ha una società sostanzialmente bianca ed omologata, come è evidente a chiunque viva in ambiti extra cittadini o non italiani e la visiti anche brevemente. Quanti sono gli assessori comunali, i professori universitari, i maestri di scuola, i direttori della filiale della banca di fiducia, i capiufficio di pelle nera o ancor più banalmente extracomunitari? E, in tali casi, qual è l’esperienza che queste persone hanno avuto nel loro percorso sociale cittadino? Queste sono le domande che quantificano l’integrazione, non le chiacchiere su storie di mille e rotti anni fa. C’è una solidarietà pelosa, che dipinge l’accoglienza come l’allargare le braccia ai poveri e ai diseredati e che evita di trattare il tema più importante del livello sociale di chi si accoglie in una comunità. Osimhen è ricco, talentuoso e famoso ed alla prima (legittima) battaglia economica gli è stato serrato il muso con una noce di cocco. Con chi replica che queste siano le regole del social o che anche ad altri sia stato riservato medesimo trattamento non c’è neppure da sprecare tempo a rispondere.
Le battaglie sui diritti individuali che hanno reale valore esemplare sono quelle fatte a tutela dei diritti altrui. Difendere Koulibaly non fu sbagliato, ma è nella difesa del diritto di chi scalcia per andarsene che si realizza il valore del rispetto. Se tutto ciò che sappiamo difendere sono quelli della nostra banda – comunque questa banda sia composta – non siamo una realtà che accoglie. Siamo solo uno delle miriadi di gruppuscoli che si aggirano per il mondo: arriverà un giorno chi ha più danari e ci lascerà in braghe di tela. E siccome i denari li sa sapientemente gestire, forse De Laurentiis dovrebbe pensarci.