La partita del Napoli a Berlino è stata brutta, così come il calcio senza reti è stomachevole: perciò cambiarono le regole
Ho letto con attenzione il pezzo di Max Gallo sul concetto di bellezza nel calcio e sul rilievo che merita. E sono abbastanza d’accordo con lui. Abbastanza ma non del tutto. Certamente , ritengo, la cosa che conta di più nello sport è il risultato. Nel senso che è ciò che resta nel tempo. È ciò che ti fa progredire o meno in classifica. È ciò che segna il destino di tecnici, giocatori e presidenti. Chi scrive, sia chiaro, si autoclassifica un risultatista convinto. Se il Napoli vince sono felice. Altrimenti sono triste. E tra una partita giocata divinamente ma persa preferisco quella giocata dal Napoli a Berlino, brutta ma vincente. A latere voglio aggiungere che un giudizio negativo espresso in occasione di una partita vinta è anche l’espressione del timore di una prospettiva non esaltante per gli incontri successivi. Hai giocato male ed hai vinto. Mi fa piacere per oggi. Ma mi preoccupa per il futuro.
Ritenere che non abbia diritto di cittadinanza l’espressione di un canone estetico nel godere dello spettacolo calcistico secondo me è sbagliato e non aiuta il calcio. Personalmente, lo ripeto, ho trovato davvero brutta la partita disputata dal Napoli e dall’Union Berlino. Così come sempre diventa brutto il calcio quando è mutilato del suo appeal fondamentale: i tiri in porta e di conseguenza i goal. Il calcio senza reti è cosa stomachevole. Ed è quello che spinse a cambiare le regole introducendo il valore di tre punti per la vittoria. O a proibire il passaggio all’indietro al portiere.
D’altro canto le statistiche della scarsa affezione al calcio tra i giovanissimi è legata anche alle lunghe pause di spettacolarità durante le partite. Sia chiaro non ne faccio una questione di moduli. Il calcio olandese era più bello di quello all’italiana? Grande fregnaccia. Innanzitutto perché il bello è soggettivo. E poi, nello specifico, dove sta scritto che i fulminanti contropiedi dell’Inter di Herrera, Suarez , Corso e Mazzola erano meno belli del calcio totale? In fondo il confronto non ha senso. E’ come interrogarsi se la Madonna col cardellino è più o meno bella de Le Déjeuner sur l’herbe. Caro Max la bellezza non è una entità misurabile. E’ la percezione di una immagine, di un evento di un movimento che ti procura piacere. Se è così perché sarebbe ignorare la complessità del calcio osservare che quella contro l’Union Berlino è stata proprio una brutta partita? E osservare a latere che dentro una partita orribile la fiammata di Kvara-Raspadori è stata una perla assoluta di bellezza? Qui non c’entra il sarrismo e nemmeno Ancelotti. Qui c’entra la percezione estetica di uno spettacolo.
Perché meravigliarsi del fatto che la sensazione della bellezza condizioni un giudizio nel calcio se essa interviene addirittura nella scienza? Chiediamoci: può la bellezza di una teoria condizionare, magari inconsciamente, il giudizio di una scienziato?
La domanda non è retorica. Se percorriamo la storia della scienza essa è infarcita di scelte dettate in fondo da criteri estetici. Einstein, per esempio, diceva che un metodo per giudicare la validità di una teoria scientifica è la sua bellezza. A sentire gli storici della scienza, non fu un caso che Galileo mancò di riconoscere l’ellissi disegnata dalla Terra intorno al Sole perché ancora sedotto dall’idea del cerchio come perfezione del movimento.
Così è molto suggestiva l’affermazione del matematico Hermann Weyl: “Nelle mie ricerche mi sforzai sempre di unire il vero al bello; ma quando dovetti scegliere fra l’uno e l’altro, di solito scelsi il bello”. Paul Dirac, grande fisico, affermava che se in una ricerca perveniva ad una bella equazione si convinceva di essere sulla buona strada.
Il problema vero è che le categorie estetiche mutano. Sono provvisorie quanto i modelli della scienza. Gli accademici francesi rifiutarono di esporre i quadri degli impressionisti al Salon del 1874. Essi non rispettavano i criteri estetici dell’epoca. Eppure di quell’epoca ricordiamo solo Manet, Monet, Renoir. Non ci viene in mente nessun nome degli artisti accademicamente perfetti. Umberto Eco, analizzando la qualità estetica del Conte di Montecristo o del film Casablanca, ci mostra come siano un rozzo assemblaggio di cliché. Eppure, a dispetto della loro approssimativa costruzione, sono dei capolavori. Emozionano la stragrande maggioranza delle persone più dell’Ulisse di Joyce o dell’Eclisse di Antonioni.
Insomma caro Max lasciaci discutere in pace e senza anatemi se una banale partita di calcio è stata o meno bella.