L’Italia si fa i suoi “eroi” solo quando vincono. Non solo sale sul carro, se lo costruisce: oggi la Coppa Davis non è più “pezzotta”?
Il campo, Sinner che prende a pallate chiunque gli piazzino davanti, Arnaldi e Sonego che hanno mandato a memoria il film di Sorrentino e giammai avrebbero osato disunirsi, ecco tutto questo – lo sport in purezza – andrebbe mondato dal contesto. Un serraglio sovralimentato di gente che ancora a Coppa Davis calda di premiazione già si spartiva quote del carro. E di altri – i “nostri italiani” certificati finalmente uniti da un ace – che non solo di quel quel carro s’erano già assicurati i posti migliori, ma che l’avevano fabbricato ex novo, il carro: costruito espresso, con una lena sconosciuta ai tempi delle nostre infrastrutture.
Esempio: il presidentissimo della Federtennis (e padel, ma oggi no: oggi solo tennis) Angelo Binaghi che a Sky cazzia l’altrettanto presidentissimo del Coni Giovanni Malagò per non avergli fatto i complimenti, non sapendo che nel frattempo Malagò i complimenti li aveva twittati, con tanto di appuntita citazione per la “federazione di Binaghi”. Ops.
Il Quirinale calendarizza la salita al Colle degli “eroi”, costume istituzionale, per il 21 dicembre, ma Binaghi dice che no, il 21 niente Mattarella. Ha controllato l’agenda e i tennisti sono in ferie in quei giorni, dopo vanno in Australia: “La stagione del tennis è fatta così e noi non dobbiamo cambiare di una virgola, essere sempre gli stessi, non perderci in passerelle”.
Questo è Zeitgeist puro, lo spirito di quest’epoca basculante che vale per tutti: tifosi che adorano il tennis come a tratti il curling, o Luna Rossa, o la velocità di Jacobs; dirigenze e apparati politici pronti a intestarsi tutto l’intestabile 24h; la stampa rassegnatasi a celebrare “eroi” un attimo prima massacrati. Un impasto di demagogia isterica, senza (buon) senso.
Viviamo questi passaggi di stato “con la consapevolezza che è un tributo al tempo che viviamo”, e lo facciamo citando nientemeno che Pierferdinando Casini. Capirete il disagio.
Visto che però Sinner (e Bagnaia in scia) vengono ora censiti come l’eccellenza che ci meritiamo (e non come esempi d’una realtà fuori dai luoghi comuni fatta di ragazzi che si fanno il mazzo con serietà e alle volte hanno successo NONOSTANTE l’Italia e non grazie a), val la pena forse di ridurre l’eccitazione generale e tornare ad un cinico pragmatismo.
La verità è che Jannik Sinner ad un certo punto vincerà uno Slam, ma nel frattempo perderà delle partite, anche molte, anche ripetutamente. Perché il tennis va esattamente così: la stagione è infinita, il gioco in sé è infame. E’ una sinusoide. E quando la curva precipiterà il carro andrà svuotandosi, i giornali s’accaniranno sulla sbagliata preparazione atletica, o sul coach da rendere indietro come i pacchi di Amazon, o – peggio ma inevitabile – sulla… figa. Che non è l’organo sessuale femminile ma la tendenza supermaschilista di identificare i guai dell’uomo con la partner bellissima che l’accompagna. Tipo Berrettini: ve lo ricordate l’osannato finalista di Wimbledon poi fatto a pezzi per la sua relazione spaccamuscoli con Melissa Satta? Ve la ricordate la povera Mirka, la mugliera di Federer che aiutava il campione a vincere semplicemente essendo “brutta”?
Adesso è il momento di ricordare a tutti che la suddetta Coppa Davis che prima o poi porteranno con una parata di carri carnevaleschi da Mattarella, era contrabbandata fino ad un attimo fa come il “pezzotto” della coppa originale. Quella leggendaria che vincemmo in Cile nel 1976, fatta di trasferte in campo nemico, superfici variabili, quattro singolari tre set su cinque. Questa ne è la versione light, commerciale, scrivevano. Ora non lo scrivono più.
Non si trova più un’anima coerente disposta a tenere il punto. Ora incassiamo, festeggiamo, osanniamo. La Gazzetta dello Sport che di Sinner fece un “caso nazionale”, essendo ormai bullizzata da tutti, persino dal Corriere della sera dello stesso editore, è stata costretta a scomodare Cairo in persona – notoriamente uno schivo, che non ama l’esposizione – intervistato sulla sua goduria per le imprese di Sinner.
Sinner non avrà la cattiveria di Walter White quando urla “say my name!” (come arriva a scrivere il Corsera) ma è abbastanza solido da sopportare le prossime crisi ormonali di questo Paese che adesso lo ama e poi lo tradirà. La Coppa Davis tornerà la coppa del nonno quando dovesse capitarci la sventura d’essere eliminati ai quarti da una Finlandia qualunque, ma tranquilli: forse per allora Sinner avrà vinto gli Us Open, o lo Slam australiano, e allora chissene di quel “torneo di Piqué”. Siamo fatti così. Stiamo solo navigando in una tempesta di paillettes.