La classifica di Serie A fa strame dell’ideologia imperante. Allegri è un resistente, come Mourinho, vittime del catenaccio shaming
Ma questo calcio che tanto piace (e perde) è davvero estetica o è narcisismo?
E cosa sarà mai la classifica, se non un inestetismo. Come quelli della cellulite. Un’unità di misura che ha evidentemente qualcosa che non va, deve essersi rotta in qualche punto. Avranno sbagliato i calcoli. Non può – NON PUÒ – la Juve essere lassù, appesa alle reni dell’Inter capolista. Mentre il bello del calcio italiano è fermo al campo base. La Lazio di Sarri è decima; il non-più-Napoli-di-Spalletti è quarto e arranca; la Fiorentina dello splendido Italiano ha gli stessi punti della Roma horribilis di Mourinho. C’è evidentemente qualcosa che non quadra. È una scala valoriale corrotta.
“Davvero chi ama da sempre la Juve si accontenta delle classifica e non prova imbarazzo davanti a una Signora così sottomessa e lontana dall’autorevolezza della sua storia?”, chiede la Gazzetta dello Sport stamattina. Gli aveva già risposto, ieri sera, Szczesny:
“Anche oggi abbiamo passato dei momenti difficili, circa 89 minuti”
“Oggi abbiamo passato dei momenti difficili…circa 89’minuti” Szczesny da il titolo, ma nessuno se ne accorge 🤣pic.twitter.com/BukI02z3Tx
— Maurizio Pistocchi (@pisto_gol) November 6, 2023
Va da sé che la risposta era nell’autoironia del sorriso, con lo studio tv a ridere di sponda. Era un’immagine scanzonata, gioiosa. Poco aderente alla vuota seriosità dei soliti melodrammi post-partita. Era uno scarto di percezione. Hai visto mai che la bellezza non sta per forza dove tutti la cercano?
Guardala oggi, quella classifica. Con gli occhi d’un tifoso dell’Inter o della Juventus. È difficile, poi andiamo a berci su. Ma proviamoci. Cosa vedete? Il primato o giù di lì. Lo scatto verso un obiettivo, contro una concorrenza che resta arretrata, in affanno. Il vantaggio. L’essenza dell’agonismo beato. Spurio dalle incrostazioni delle miriadi di statistiche ulteriori che dovrebbero sovvertirne il senso. Senso oggettivo? Di giustizia? Vai a sapere. Il possesso palla, gli expected goals, la percentuale di stanzialità nell’area avversaria, quante volte si soffiano il naso in prossimità della linea laterale.
Non dovrebbe vergognarsi, dunque, la Juve, di questa bruttezza cogente? Non si fa. Non si vince così. È immorale quasi. E se invece anche la fragranza del peccato, la sofferenza, la fatica di strappare tre punti sottraendoli a chi “merita”, l’incertezza, aumentassero il piacere, amplificassero il brivido?
Guarda la Fiorentina di Italiano, vittima più che esegeta dell’ultimo comandamento del pallone, il più solipsistico e – in buona sostanza – scemo: la tirannia della tattica ideologica.
A guardare con gli stessi occhi, da non tifosi d’una parte o dell’altra, Fiorentina-Juventus e la classifica successiva, vien da chiedersi se non ci sia alla base un grosso fraintendimento filosofico. È estetica o narcisismo?
C’è di fondo l’incomunicabilità, per ignoranza o partigianeria consapevole, tra chi stabilisce che arte e realtà non facciano parte della stesso mondo. È in virtù di questa confusione che l’estetica finisce col riferirsi a una molteplicità estremamente eterogenea di cose che, a ben vedere, non sono e non dovrebbero dirsi artistiche. Si chiama estetismo diffuso: la tendenza a estetizzare tutto, a una sorta di cosmesi della vita in generale, figuriamoci una partita di calcio.
La Fiorentina più che bella è a tratti kitsch. Sostare ai margini dell’area juventina per 90 minuti crossando la palla in quel territorio superaffollato di difensori in posizione non è una tattica: è un atteggiamento compulsivo, anche masochistico. È narcisismo da definizione Treccani: tendenza e atteggiamento psicologico di chi fa di sé stesso, della propria persona, delle proprie qualità fisiche e intellettuali, il centro esclusivo e preminente del proprio interesse e l’oggetto di una compiaciuta ammirazione, mentre resta più o meno indifferente agli altri, di cui ignora o disprezza il valore e le opere.
La Fiorentina – non solo e non direttamente, ma val bene come esempio di massima – fa parte di quella che Adorno definiva “industria culturale”. Chiusa in sé stessa. Trova in sé stessa l’unico significato possibile. La classifica? Lo scopo stesso per cui si compete – la vittoria? Orpelli. Inestetismi, appunto. Come la cellulite. Da trattare, con un certo imbarazzo. Siamo al catenaccio-shaming.