Il ct azzurro ora guida anche l’Asvel: “Non credo alla filosofia militare, con questa generazione non funziona”

Gianmarco Pozzecco ha già conquistato la Francia. Da ct dell’Italia è volato a guidare anche l’Asvel e – scrive L’Equipe – “ha portato una nuova prospettiva di vita”.
“I suoi tagli di capelli al neon, il suo gioco spettacolare basato sull’istinto e sui passaggi di retroguardia, il suo carattere estroso, esuberante, esplosivo, la sua passione comunicativa hanno offerto, durante tutta la sua carriera, uno spettacolo affascinante: il suo salto tra le braccia di Giannis Antetokounmpo a Euro 2022 dopo eliminando la Serbia – flirtando costantemente con il limite – espulsioni a cascata. “In un cimitero poteva risvegliare i morti”, sorride l’ex Asvel Miro Bilan, che ha giocato per lui al Sassari. Lo shock ha permesso al club di Tony Parker di interrompere la serie disastrosa dell’Eurolega (18 sconfitte consecutive) vincendo il 2 novembre a Kaunas (91-88)”.
Poi hanno perso a Limoges, perché Poz a parte, la “squadra è ancora malata”. Allora, continua il racconto dell’Equipe, “Pozzecco riunisce i suoi giocatori al centro del campo, lancia loro uno sguardo cupo, qualche parola, poi li lascia pensare in silenzio”. “Ho detto loro che non si impegnavano nel modo giusto”, spiegato in un’intervista di 90 minuti a L’Équipe. “Non parlare più permette di considerare meglio le proprie responsabilità, di concentrarsi. E poi mi dà il tempo di pensare a cosa potrò dire loro dopo…”.
Pozzecco racconta al giornale francese la sua cura d’ottimismo. “Devo solo portare un po’ di freschezza. Ai giocatori è mancata la fiducia. Alcuni dicevano che avrebbero finito la stagione a 0-34 in Europa. Puoi rimanere impantanato in questa sensazione. Il mio primo compito è stato convincerli che potevano vincere le partite. Mi piace che i giocatori siano felici e per questo hanno bisogno di minuti! Amo tutti i miei giocatori allo stesso modo”.
Pozzecco parla di Nando De Colo: “Lui è una leggenda e lo tratto come tale. Sono della vecchia scuola su questo. Un Nick Galis, anche a 80 anni, lo metterei nella mia top five. Quando vedo qualcuno che ne dubita, mi ricorda di quando ero giovane. Ero già il più piccolo alle elementari. Mio padre stesso non credeva nel mio futuro da giocatore di basket e mi ha spinto verso il calcio. Ho sempre detto che il basket era uno sport razzista riservato agli alti (ride). Ho aiutato i più bassi a credere nella loro fortuna. Non mi interessano le opinioni. Ero veloce, intelligente. Come Davide contro Golia, ho spostato il confronto su un altro terreno, utilizzando armi diverse, per impormi. Questo è quello che dovrà fare l’Asvel contro le squadre più forti dell’Eurolega”.
“Ho bisogno di questo tipo di rapporto stretto con i miei giocatori. Non sono un ragazzo con una filosofia militare, che lavora fino allo sfinimento, di cui dovresti aver paura. Non funziona con questa generazione e non ci credo. Non sono i miei giocattoli. Dobbiamo condividere vittorie e sconfitte, essere tutti coinvolti, come una famiglia. Non so quale sarebbe un obiettivo realistico in questa stagione. Ma sono come i miei figli. E tuo figlio, vuoi che diventi un astronauta. Anche se alla fine non ci riesce”.
La Mosca Atomica, il soprannome che gli diete Franco Lauro, dice che è perfetto: “Sono un piccolo insetto che ronza, ti dà fastidio e ti gira continuamente intorno senza che tu possa mai schiacciarlo. Sono così. Non penso sempre a quello che sto facendo. Sono appassionato, selvaggio. Quando ero giovane, facevo sempre cose stupide. Il basket mi rende felice, purché lo faccio a modo mio, seguo le mie idee, anche se spesso la gente mi trova eccessivo. Non ho mai cercato di convincere gli altri che avevo ragione. Lo dimostro attraverso il lavoro, i risultati. Se ti unisci, sono felice. Da giocatore, tutti pensavano che fossi un clown, che non aveva vinto nulla. Ho finito per dimostrare, vincendo il titolo con Varese, ventuno anni dopo, nel 1999, da leader, con un altro ragazzo incontrollabile, il mio amico Andrea Meneghin (figlio di Dino), che facevo sul serio. Lo dissi allora, ma vale ancora oggi: posso essere un clown. Ma il clown numero 1″.