Sconcerti aveva spiegato cos’era diventato il giornalismo calcistico (più che sportivo): è il motivo per cui un commentatore politico funziona
Mario Sconcerti manca. Ci mancano anche le sue banalità o le sue cazzate (qui sul Napolista mettemmo in esergo la sua frase su Cristiano Ronaldo che alla Juventus avrebbe fatto panchina). Manca quel giornalismo che lui stesso descrisse perfettamente sia su La Lettura sia in un’intervista a Libero. Proprio a Libero un’anno e mezzo fa, Sconcerti disse una frase che fu una fotografia perfetta, non solo del giornalismo sportivo (forse è meglio dire calcistico) ma diremmo anche e soprattutto del giornalismo calcistico on line dove i lettori ti entrano dentro casa con l’arroganza tipica (per non dire altro) di chi ha letto poco .
«Io ho un vantaggio, faccio questo mestiere da tanto tempo e non voglio leggere le notizie di nessuno, mi piace anticiparle. La tendenza di oggi è che il giornale sportivo debba parlar bene di tutti, al contrario il giornale dovrebbe dar voce a una parte e all’altra. Ormai ci si limita a dire al tifoso quello che vuole sentirsi dire».
«Ormai ci si limita a dire al tifoso quello che vuole sentirsi dire», sarà la prossima frase che metteremo in evidenza sul nostro giornale.
Su La Lettura, in un pezzo che è il suo testamento professionale, scrisse (tra le altre cose):
Oggi le notizie sono quasi scomparse. O meglio, sono nella stragrande maggioranza guidate dalle società. Questo porta a un controllo molto ingombrante dell’informazione.
Sconcerti: (…) Se volete parlare con Pioli o Conte, con un allenatore in genere, dovete prima chiedere alla società, mettervi in fila e sentirvi dire che in questo momento è meglio di no, ci sono troppe partite. E quando mai otterrete l’intervista, vi troverete nella stanza non solo Conte ma anche il direttore della comunicazione, vero ufficiale politico della nuova informazione calcistica. Il quale controlla il suo stesso allenatore, che dica cose conformi all’ortodossia della società. E controlla che il giornalista le riporti in modo poco sovversivo.
Sconcerti: (…) Questo piacere del controllo ha cancellato qualunque rapporto. Nessuno parla più con nessuno. Un giocatore a turno parla ogni giorno in conferenza stampa, davanti a tutti e con l’ufficiale politico accanto. Quindi solo frasi di routine. L’allenatore parla solo prima e dopo le partite. E solo perché credo sia ancora previsto dai contratti televisivi.
E va sempre peggio. E, soprattutto, i nuovi che si affacciano al giornalismo calcistico (soprattuto in realtà piccole e contrassegnate dalla faziosità) non sanno neanche più quale sarebbe in teoria il comportamento del giornalista. La faziosità è richiesta, è pretesa dall’utente e quindi al fondo anche dall’editore che vuole monetizzare.
Potremmo essere accusati di farla troppo breve, e per certi versi è anche vero. Soprattutto per i grandi quotidiani che ancora resistono e le cui redazioni sportive sono piene di grandi professionisti. Perché, attenzione, lo sport non è il calcio. C’è un abisso tra i due settori. Parliamo del Corriere della Sera, ovviamente, ma anche La Stampa, Repubblica o Il Giornale, Libero e altri. Sono realtà molto diverse da quelle di battaglia che agiscono soprattutto a livello locale.
Però non ci sorprende che oggi i commenti calcistici più efficaci sul Corriere della Sera siano quelli affidati alla penna di Fabrizio Roncone che ha frequentato il giornalismo sportivo ma è stato a lungo un cronista politico nel senso ampio del termine. Ha sempre cercato di avere uno sguardo ampio e non ha l’imprinting del pallone. Nel giornalismo politico c’è molta più libertà. Infinitamente. Non c’è paragone. È la prima differenza che colpisce chi, dopo anni vissuti tra Montecitorio e Palazzo Chigi, passa a occuparsi di interpretare mezze frasi smozzicate da allenatori che si ritengono guru e che talvolta bisticciano non poco con la lingua italiana. “Ma come, fino a ieri riempivamo di contumelie Berlusconi o Renzi e mo dobbiamo misure col bilancino gli sfoghi di Allegri o Spalletti?”. Che, con tutto il rispetto, fanno pur sempre gli allenatori.
E quindi è forse anche per questa leggerezza mentale, questa serenità, questo approccio non liturgico né ossequioso, che Fabrizio Roncone funziona. Non è nell’ingranaggio calcistico. E si vede. E guai se ci entra. Se ne tenga lontano, anche perché è così poco interessante e molto deprimente. Non risponda alle telefonate. Sennò cominciano gli incisi, la parola aggiustata e noi perdiamo il gusto della lettura. I lettori non brubrù (come avrebbe detto Michele Fusco) ci sono ancora.