Il Corsport intervista uno dei primi istruttori di Jannik: «Lo criticò perché lui attaccava sempre. Era una spugna, non c’era mai bisogno di ripetere»
Sinner oggi giocherà la finale del Masters contro Djokovic (ore 18). Ieri ha battuto Medvedev in semifinale. Il Corriere dello Sport intervista uno dei suoi primi maestri, Andrea Spizzica.
«Il primo anno in cui arrivai a Brunico, “Hebi” Mayr mi segnalò questo ragazzino di 7 anni. Giocai con lui nonostante io non parlassi una parola di tedesco e lui una parola di italiano; finimmo quell’ora e da lì cominciò il nostro rapporto».
Cosa saltava agli occhi?
«Il tempo sulla palla. È stato facile per noi indirizzarlo a un gioco offensivo, cercando di fargli tenere i piedi dentro il campo. A 12 anni andava in difficoltà con i ragazzi più strutturati di lui fisicamente, che con maggiori rotazioni riuscivano a tenerlo lontano dalla riga di fondo. Jannik ha sempre seguito i nostri dettami, anche quando a un raduno per la Nazionale un maestro lo criticò perché, secondo lui, non sapeva “fare due palleggi” per via del suo gioco votato all’attacco».
L’impressione è che Sinner migliori con relativa facilità. È una spugna.
«Non c’era mai bisogno di ripetere. Ascoltava, capiva, imparava e replicava l’esecuzione tecnica in campo. Nella carriera da maestro di tennis mi è capitato solo una volta».
SINNER NON SI ACCONTENTA (NAPOLISTA)
Sinner progredisce per ambizione. Non si accontenta. È un fenomeno in costruzione, per cui anche solo il tranello utilitaristico del “biscotto” risulta controproducente. Sinner non vuole vincere “solo” il Masters di Torino. Vuole vincere battendo in finale il migliore. Per un motivo semplice semplice: lo sport funziona così. I vincenti lo sono davvero solo se patologici. E’ un’ossessione che non s’abbassa al livello di noi tristi calcolatori della sventura altrui. Lo sport che pratica Sinner è quello della pretesa superiorità assoluta. Appena molli un secondo, diventi uno qualsiasi. E nessuno degli otto migliori tennisti al mondo pensa di essere qualsiasi. Nemmeno Rublev, che in pieno match finisce per autoflagellarsi distruggendosi un ginocchio con la racchetta, fino al sangue. Come i fujenti della Madonna dell’arco.