La vittoria su Rune marca una distanza dai nostri “biscotti”: gli avversari non si “evitano”, si battono. Anche se significa ritrovarsi Djokovic in finale
Jannik Sinner gioca a tennis. Non a calcio (e benedettiddio non scia più, anche se i giornali ce lo ricordano tutti i giorni perché deve pur significare qualcosa). Sinner fa una cosa, a ventidue anni, che fa dire a santi poeti navigatori: lui no, mai. I biscotti se li mangia, sono un concetto da pallone, che c’entrano con lo sport? John Updike scriveva – per il golf – che “il corpo umano, affrontando le avventure di una partita, sperimenta un’inebriante relatività: ci si sente immersi in rapporto alla pallina, e minuscoli in rapporto al campo”. Vale pure, anzi meglio, per il tennis. Sinner marca una distanza. Da noi, e anche per tutti noi.
C’è tutta una scuola di retropensiero agonistico che aveva fatto i calcoli: perde da Rune, fa fuori Djokovic, evita di ritrovarsi il miglior giocatore di tennis della storia in finale alle Finals. Marca l’aveva messo nero su bianco, noi avevamo recepito con un po’ di malcelata vergogna. Era un suggerimento: un “fai tu”. Chi è prossimo al ragazzo sorrideva, sapeva.
Sicché Sinner va in campo da qualificato e devasta Rune nel primo set, un frigorifero dopo una lavatrice, in una sequenza di elettrodomestici che lasciano il danese in fondo al risultato con tutta la sua isterica arteteca. Nel secondo set, quando comincia la vera partita, accusa un evidente fastidio alla schiena. Si toccai i reni dopo ogni rovescio. Bertolucci in telecronaca dice che lui si ritirerebbe. Ljubičić, nel ruolo di bordocampista, conferma: sì, gli direi di fermarsi.
Sinner non si ferma. Non chiama il fisioterapista (che nel tennis viene convocato anche solo per prendersi una pausa. Mitico Medvedev che lo chiamò per farsi dire cosa aveva fatto all’avversario che lo stava battendo: prendo quello che ha preso lui, grazie). Sinner perde il secondo set, vince il terzo. Vince e basta. Tiene Djokovic dentro al torneo. Poi va al microfono e non dice mezza parola mezza sul dolorino alla schiena. Gli alibi, i frigni, non abitano in lui. Non aspetta le condizioni, non le subisce. Le crea.
La sua è una vicenda formativa. Per lui, che ha da poco passato i vent’anni. Ma soprattutto per noi che continuiamo a fruire dello sport col malanimo inculcato da troppi decenni di “cultura” calcistica. Il tennis è per cliché pugilato senza contatto, ma proprio per questo ha bisogno di autoalimentazione costante. Sinner è in una bolla agonistica: deve vincere per continuare a vincere. Rune non l’aveva mai battuto, e doveva batterlo per andare avanti. Come aveva fatto con Medvedev, o appena due giorni fa con Djokovic. Tipo i nemici nei videogiochi degli anni 90, uno dopo l’altro fino al mostro finale.
Ma di più: Sinner progredisce per ambizione. Non si accontenta. È un fenomeno in costruzione, per cui anche solo il tranello utilitaristico del “biscotto” risulta controproducente. Sinner non vuole vincere “solo” il Masters di Torino. Vuole vincere battendo in finale il migliore. Per un motivo semplice semplice: lo sport funziona così. I vincenti lo sono davvero solo se patologici. E’ un’ossessione che non s’abbassa al livello di noi tristi calcolatori della sventura altrui. Lo sport che pratica Sinner è quello della pretesa superiorità assoluta. Appena molli un secondo, diventi uno qualsiasi. E nessuno degli otto migliori tennisti al mondo pensa di essere qualsiasi. Nemmeno Rublev, che in pieno match finisce per autoflagellarsi distruggendosi un ginocchio con la racchetta, fino al sangue. Come i fujenti della Madonna dell’arco.
Infine – altra lezione da mandare a memoria: Sinner è un professionista. Il suo è un lavoro. E il tennista gioca per lui e per lui soltanto: non per noi a casa, non per il pubblico pagante, e nemmeno per la fidanzata in tribuna. Il suo lavoro è vincere per guadagnare e viceversa. Alle Atp Finals chi alza il trofeo da imbattuto guadagna un bonus ulteriore: in tutto porta a casa 4 milioni e 700mila euro. Capirete che “il biscotto” in un universo così modellato è una piccineria, un espediente nemmeno così furbo: pensa il fastidio di portarsi poi la croce d’aver perso apposta, in casa… i soliti italiani, avrebbero detto. Sinner non aveva scelta: doveva vincere, perché non saprebbe fare altro. Non ha salvato Djokovic, ha salvato se stesso. E pure un po’ noi.