A Sportweek: «Ai Mondiali dell’82 Tardelli e Zoff sapevano la formazione prima degli altri. Fu Tardelli a dirmi: “la finale la giochi tu”»
Beppe Bergomi sulle pagine di Sport Week racconta i suoi primi 60 anni nel calcio, partendo dalla sua passione infantile per il Milan, passando per gli esordi e la lunga carriera fino ad arrivare alla tv.
Il debutto in Serie A
«Bei tempi, quella maglia numero 13. Nel giro di undici giorni ho debuttato in Serie A e in Coppa dei Campioni. Più pesante il primo esordio, il 22 febbraio 1981, Inter-Como 2-1: quel giorno successe di tutto. La notte prima della partita viene ricoverato per appendicite Canuti, dunque in panchina quel giorno ci siamo soltanto io, Cipollini, Pancheri e Tempestilli. Vierchowod spacca il ginocchio a Lele Oriali e Bersellini fa a me e a Pancheri: “Scaldatevi”. Però butta dentro me: “Stai addosso a Nicoletti”. Peccato che Nicoletti fosse alto 1,90, proteggeva la palla benissimo, io arrivo fuori equilibrio su un colpo di testa, respingo centrale, arriva Gobbo e fa gol. Poi vinciamo 2-1, ma nel frattempo viene espulso Beccalossi, i tifosi arrivano dietro la nostra panchina per protestare contro l’arbitro e mi prendo vari 5 in pagella. Però un premio mi tocca, la prima vasca calda dopo la partita a San Siro: che meraviglia».
A 18 anni in finale al Mondiale
«Che avrei giocato la finale stando appiccicato a Rummenigge, me lo disse il giorno prima Tardelli: “Guarda che domani devi marcare quello biondo”. “Ma scusa – gli faccio – manca Antognoni: perché un difensore?”. “Tu preparati bene”. Lui parlava con Bearzot quando il Vecio faceva il giro delle camere e lo trovava sempre sveglio. Ci parlava anche Zoff, ovviamente, e infatti Dino prima di Italia-Polonia mi aveva detto: “Non sto benissimo, oggi i rinvii dal fondo li fai tu”. “Dino, ma io non gioco”. Invece giocai, lui lo sapeva già. A 18 anni non si soffre di insonnia da tensione, dunque la mattina della finale arrivo alla riunione tecnica per la formazione che avevo dormito, tranquillo. Bearzot mi fa: “Antognoni prova fra poco”. Due ore dopo, a mezzogiorno: “Giancarlo non ce la fa”. Prima del riposino: “Antonio prova ancora più tardi”. A merenda: “Niente, è fuori: dentro tu”. Poche parole come sempre, il Vecio. Come prima di mandarmi in campo contro il Brasile: “Scaldati e marca Serginho”. Stop». «Dunque, io titolare a 18 anni nella finale del Mondiale: c’era di buono che avevo poco tempo per andare in ansia, però il the e la torta di quella merenda li ho lasciati lì, non mi andava giù niente».
Bergomi e gli avversari
«Beckenbauer una volta inserì me e Riccardo Ferri nella sua formazione ideale, e pure quella fu una bella botta di autostima, ma uno dei complimenti di cui sono più orgoglioso me lo ha fatto Van Basten: “Bergomi è uno dei difensori più difficili che ho affrontato”. Posso dire lo stesso di lui: l’attaccante più difficile, se escludiamo Maradona che era fuori categoria. Oggi sarei un difensore normotipo, ma a quei tempi ero uno dei più alti, però Van Basten non solo era più alto, ma pure grosso, fortissimo di testa, un fenomeno tecnicamente, cattivo agonisticamente. Io gli schiacciavo i piedi, lo tiravo per la maglia, lo prendevo per le palle e lui raccoglieva la sabbia da terra, me la tirava in faccia e poi partiva. Si faceva di tutto, allora. Infatti a Maradona ho dato certe botte che c’era quasi da vergognarsi, con lui si faceva così per forza: Diego si rialzava e ti dava la mano. Un marziano calcisticamente, con un’intelligenza mostruosa: se lo marcavo io mi risucchiava a centrocampo, lo marcava Beppe Baresi e se lo portava dentro l’area, per fare la punta. E lottava per la sua squadra, sempre, in campo e anche fuori dal campo: era meglio di un sindacalista, Diego».