Il suo calcio è idea di vita e pallone. Lontano dalla modestia che puzza di sconfitta. L’immaginaria staffetta con Clough
Mourinho: il mentalista diventato allenatore
Il portoghese, meglio di chiunque altro, ha saputo porre sullo stesso piano l’agón – la garra futbolista – e la vita in un’eterna danza dove vivere e morire si contendono la vittoria.
Così è (se vi pare). Uscito dallo Juventus Stadium José Mourinho ha incontrato, mano nella mano con la sua Roma, la sesta sconfitta di questo campionato. Ma non siamo qui per fare filosofia spicciola, mera matematica e conticini. Siamo qui per fare Filosofia, con la F maiuscola, e raccontare del comunicatore, del dittatore, dell’allenatore che ha, più di ogni altro, posto la sua impronta sul XXI secolo. Qualcuno avrà già indicato la postilla che risponde al nome di Pep Guardiola, eppure nessuno è stato in grado di avvicinare agón e vita come il tecnico di Setúbal. C’è un film che pur senza parlare dell’allenatore portoghese, parla dell’allenatore portoghese. La pellicola è del 2009 e si intitola Il maledetto United. Racconta i 44 giorni da allenatore del Leeds United di Brian Clough.
Sono gli anni ‘70, il Nottingham Forrest delle meraviglie ancora da venire (per intenderci quello di due coppe campioni vinte in due anni a cavallo degli ‘80), ma è qui che troviamo i prodromi di Mou. Qui la costruzione di una visione o di un modo di vedere le cose è in fase di gestazione. Mourinho sorto mentre la vita di Clough raggiungeva la fine – l’inglese è venuto a mancare il 20 settembre 2004 – ha fatto coincidere la sua esistenza allo stesso livello di quella del campo. In una danza eterna in cui per i suoi giocatori l’unica regola era non perdere il ritmo. Il sacrificio viene posto sopra ogni scelta, sopra ogni desiderio portando ad annullare tutto il resto.
Con José ogni momento può diventare infinito
Arrivato a Londra, ormai quasi vent’anni fa, disse: “Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d’Europa – con il Porto nel 2004, ndr – e credo di essere speciale”. Serve altro nel campionario di aforismi mourinhiano? Serve altro, serve altro. Del resto l’ampollosità di questo tempo, simulato e falso, ci ha abituato a una modestia che puzza di sconfitta. Ecco qui, grazie al cielo, arriva José. Mourinho ha trasformato il rettangolo verde in cento metri in cui vivere o morire. Nient’altro. Il dio del calcio è questo che chiede e lui ha saputo essere l’apostolo più fedele del verbo della pelota. Come farlo comprendere a un’epoca in cui la rincorsa alla felicità posticcia è tutto quello che conta? Viviamo in un luogo dove la felicità imbianca i nostri sepolcri facendoci credere che ognuno di noi è un vincente. Il tecnico lusitano pone l’asticella allenamento dopo allenamento, partita dopo partita, finale dopo finale, stagione dopo stagione, sempre più verso il limite dove la morte (sportiva questa volta) è il brivido eterno ben più intrigante della diatriba giochisti contro risultatisti.
Nel testo L’alieno Mourinho, redatto da Sandro Modeo per i tipi di Isbn edizioni, l’autore ci racconta il senso per la vittoria del protagonista delle nostre righe, nient’altro che “una forma indiretta di immortalità: non solo il desiderio di essere ricordati da chi ci sopravviverà, ma di cancellare in vita lo stesso orizzonte della morte”. Con José tutto resta aperto, ogni occasione può essere quella buona, ogni momento può diventare infinito anche quando l’arbitro ha fischiato per tre volte. Siamo il frutto delle interpretazioni, mai dei fatti, ed è questo il bandolo della matassa.
Il giorno che Mourinho spezzò il sogno del Liverpool
C’è una partita che è il manifesto di quanto raccontato fino a questo momento. 27 aprile 2014. Scenario Anfield. Mourinho siede sulla panchina del Chelsea e sfida il Liverpool nella 36esima giornata della Premier League. I reds sognano, dopo 24 anni, di tornare padroni in Inghilterra, ma non hanno fatto i conti con il santone di Setúbal. Mourinho ha messo nel mirino Brendan Rodgers e Steven Gerrard. Il primo, allora allenatore del Liverpool, ha iniziato a muovere i suoi passi nella cantera dei blues durante il primo regno di Mou a Londra. Un suo allievo, insomma, uscito dalla scia del portoghese per cercare gloria, grandezza e magnificenza. Ma Mourinho ha già predisposto la sua trama. La sceneggiatura richiede di creare il tempo e dilatarlo. Fosse un registra sarebbe Christopher Nolan. Impone ai suoi giocatori di allungare ogni lasso del gioco. La fretta del resto partorisce gattini ciechi e Gerrard a quasi 34 anni sente tutto il peso della galassia scousers sulle spalle e ora è impaziente. José materializza il suo piano nel pieno recupero del primo tempo. Gerrard deve scendere tra i difensori centrali per impostare la manovra, ma qualcosa, questa volta, non funziona. I secondi sono minuti, ore, giorni. La palla gli sfugge. Un passo per recuperarla, ma è a terra. Scivola nella strada lastricata di fango che conduce alla dimensione del sogno trasformandolo in un incubo. Demba Ba invece è diventato padrone delle lancette, controlla la sfera e sprinta verso la porta avversaria. 0-1. Anfield gelato.
La seconda frazione è una lenta sabbia mobile dove il Liverpool sprofonda per dire addio ai sogni di gloria. Addirittura al 94esimo, sempre in contropiede, Willian sigla lo 0-2. Le telecamere sono tutte per Mourinho. Felpa e smanicato aperto batte il palmo della mano destra sul petto. Il grido eterno “Yeah”, ripetuto n volte, sotto lo spicchio di tifosi londinesi. Breve inciso: il campionato finirà in tasca del terzo incomodo il Manchester City.
“Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?”
Ma in quei 90 minuti il perfetto trattato della manipolazione del giuoco del calcio. Il mentalista Mourinho che plasma sopra il suo volere l’avversario fino a farlo implodere. Pierre Drieu La Rochelle scrisse: “Che coli il mio sangue piuttosto che il mio inchiostro”. Le stesse parole possono essere state vergate da José Mourinho con la sola sostituzione della parola inchiostro con tattica. Perché nella vittoria o nella sconfitta troverai, cercandola, sempre l’intuizione di calcio del portoghese che è idea di vita e di pallone. In una fusione senza soluzione di continuità tra spirito vitale e ultimo respiro. A Mentana, Giuseppe Garibaldi, in una situazione disperata volse il suo cavallo verso i francesi gridando: “Venite a morire con me! Avete paura di venire a morire con me?”. Ecco come ci piace immaginare Mourinho, eroe del mondo che rotola su un manto verde, figura mistica garibaldina con il cuore sempre gettato verso i nemici per difendere quanto di più immenso ci sia: la propria tribù.