A Repubblica racconta un mondo che non c’è più: “Tutta la settimana con la slitta a tirarci palle di neve. Oggi il calcio è triste, in campo e fuori”
Dovrebbero far scrivere una favola di Natale a Maurizio Turone. Sì, quello del leggendario “gol di Turone” annullato che costò lo scudetto di 42 anni fa alla Roma. Perché, al netto di quell’episodio di cui non vuole più parlare (“ho detto no pure a Bruno Vespa…”) il calcio che racconta, intervistato da Repubblica, sembra un sogno incantato: famiglie in ritiro sulla neve per due mese, le cuscinate a letto alla viglia delle partite, le carrozze di terza classe sui treni con le panche di legno…
Turone parla della sua Roma, con “Falcao, Di Bartolomei, Tancredi, Ancelotti, Pruzzo. Bruno Conti, come un fratello. La sera prima della partita facevamo a cuscinate in camera: era diventato un rito scaramantico. Quella è stata davvero la Grande Roma: la palla era sempre nostra, 100 minuti su 90. Tra gennaio e febbraio Liedholm ci portava con le famiglie a Roccaraso. Si stava insieme tutta la settimana, con la slitta e a tirarci palle di neve. Il venerdì, mogli e figli restavano in montagna e noi andavamo a Roma, ad allenarci fino al sabato: la domenica si giocava, il mattino dopo di nuovo a Roccaraso”.
E parla del calcio d’un tempo, fatto di gente che ancora saltava l’uomo: “Alla Roma di oggi manca quello che ti cambia la partita. Ormai, tutto il calcio italiano è così: che tristezza. Arrivano al limite dell’area avversaria, e poi si passano il pallone indietro fino al portiere. Non c’è nessuno che sappia saltare l’uomo. A parte quel tipo incredibile del Napoli col nome strano. Kvaratskhelia. Lui. Anche Albert Gudmunsson salta l’uomo facilmente, ha veramente una bella gamba. Ai miei tempi di giocatori così ce n’era almeno un paio per squadra. E non parlo solo di Rivera, o De Sisti. Gente che indossava la maglia numero 10, ma anche la 8: le mezze ali. Che fine hanno fatto le mezze ali? Sono sparite. Così come gli oratori“.
“Se uno ti fa due belle finte resti sempre lì come un baccalà, anche se hai un fisico bestiale e corri come un razzo. Il problema è che adesso nei nostri settori giovanili pensano soprattutto a crescere degli atleti. Da ragazzo ti spiegavano che il campo era diviso in tre parti, e c’era un momento giusto per ognuna: rottura, costruzione, invenzione. E gol. Oggi non insegnano più che col pallone ci deve soprattutto divertire”.
Racconta un’infanzia che oggi sembra preistoria: “Da bambino giocavo all’oratorio Don Bosco di Varazze. Non c’erano telefonini, televisione: d’estate arrivavano in spiaggia le ragazzine milanesi in vacanza, ma gli inverni erano lunghi. Non avevamo altro che il pallone, uscivi da scuola e correvi al campetto senza neanche fare i compiti, aspettavi arrivasse il tuo turno perché eravamo in tanti. O andavi in piazzetta, a litigare coi vigili urbani. C’era un osservatore che ne ha portati diversi di noi, al Genoa, ricordo ancora i nomi: Rebagliati, Ferrari, Ferrando. Erano bravi come me, forse meglio. La fortuna, appunto. Tutti i giorni prendevo una corriera di colore rosso o un treno locale (in terza classe, sedili in legno) per andare in città ad allenarmi. Una felicità che non ho mai più provato“.