Se Sinner riuscisse nell’impresa di sfrondare la presenza di mamma e papà alle competizioni sportive dei pargoli, andrebbe fatto senatore a vita
Se parla di mamma e papà, allora vuol dire che Sinner è veramente italiano. Perché il povero (si fa per dire) Jannik, essendo nato agli estremi dell’Italia, dove si parla anche tedesco, è stato a lungo vittima di una sottile diffidenza. Da quelle parti si è considerati pienamente italiani solo quando si portano a case medaglie d’oro. Che siano conquistate con lo slittino, con i tuffi, o in questo caso con il tennis.
Alla premiazione dopo la vittoria su Medvedev, Sinner ha ringraziato sua madre e suo padre per la libertà che gli hanno concesso. E poi nelle interviste ha sviluppato il concetto. Li ha ringraziati ma era anche una specie di risarcimento il suo. Un risarcimento che ricorda quanto sacrificio c’è dietro la vittoria, dietro la chance che una persona si dà di competere ad altissimi livelli. E qui sembra meno italiano, almeno nel senso dei luoghi comuni e nella narrazione che da sempre stritola l’essere italiani. Narrazione che ahinoi non è campata in aria.
Ecco le sue parole oggi nell’intervista al Corsera (che poi è la conferenza stampa).
«Sono andato via di casa a 13 anni, costretto a crescere velocemente: ho imparato da solo a fare la lavanderia, a cucinare, a fare la spesa. Per un genitore lasciare andare un figlio così presto non è facile. Ci siamo persi molte cose che sto cercando di recuperare con mio papà, che ogni tanto mi accompagna ai tornei. Ma l’adolescenza è andata».
Sono stati contenti, a casa?
«Non li ho ancora sentiti. A loro non piace apparire: ho voluto fare una cosa carina per farli sentire speciali per una volta. Ho avuto la fortuna che i miei non mi mettessero pressione: non è così per tutti i ragazzi giovani che provano a costruirsi una carriera. Poi, forte lo diventi col lavoro».
«Ci siamo persi molte cose che sto cercando di recuperare con mio papà, che ogni tanto mi accompagna ai tornei. Ma l’adolescenza è andata» è una frase da film.
Il resto spiega che cosa c’è dietro una scelta così drastica. E il valore di essere lasciati soli a badare alla propria vita, soli ma ovviamente seguiti da lontano. È anche così che non si smarrisce il filo della partita della vita pur essendo sotto 6-3 5-1 in una finale di slam. Perché sei stato abituato a cavartela da solo. Non è soltanto il coach (bravo) che ti suggerisce di indietreggiare sulla risposta per non concedere ritmo all’avversario. In fondo, esagerando ed estremizzando, il successo di Sinner e le sue dichiarazioni potrebbero trasformarsi in un memorandum divulgativo per i genitori che affollano le competizioni dei loro figli. Consigliamo a tutte le scuole sportive di fare gigantografie della frase di Sinner. Oppure optare per una bella frase illuminata:
I genitori di Jannik non c’erano quando giocava lui e guardate com’è diventato.
Non c’erano nemmeno alla finale in Australia, figuriamoci ai tornei juniores. Potrebbe essere la volta buona per aumentare di un discreto 30% il divertimento dei bambini e dei ragazzi e offrire loro la possibilità di cavarsela da soli, nel bene e nel male. Spegnere quell’occhio di bue perennemente acceso che quasi sempre crea danni.
Se Sinner riuscisse nell’impresa di sfrondare l’oppressiva presenza di mamma e papà alle varie competizioni sportive, andrebbe nominato precocemente senatore a vita, facendo uno strappo alla Costituzione che se non sbagliamo prevede l’età minima di cinquantotto anni per il laticlavio. Alla cerimonia chiameremmo Paolino Pulici, ex bandiera del Torino anni Settanta, a lungo impegnato in scuole calcio, che partorì la celebre frase: «Mi dispiace dirlo ma il bambino che preferisco è il bambino orfano».