Guardando la finale di supercoppa sono stato assalito da una tristezza infinita. Il Napoli per essere attrattivo deve giocare in un certo modo
Il Napoli stia attento a smarrire il suo marchio di fabbrica che è sempre stato il gioco
Guardando la finale di super coppa con l’Inter sono stato assalito da una tristezza infinita, figlia della consapevolezza che si stava certificando la definitiva chiusura di un’era, anzi di una fase storica durata un decennio, che se da un lato ha (aveva?) consolidato l’incredibile ascesa del Napoli anche a livello europeo, dall’altro lato si è contraddistinta per la ricerca e la proposizione di un tipo di gioco (di calcio, come dicono alcuni allenatori) a sua volta caratterizzato da tutti quei requisiti che fino all’anno scorso avevamo osservato ed in certo qual modo ammirato.
Salvo alcune battute a vuoto, ovviamente, che capitano pure ai migliori.
Il gioco del Napoli, da Benitez a Spalletti
Il gioco che ha caratterizzato, per esempio, i primi sei mesi del primo anno di Benitez (fino ad allora mai visto), oppure quello che ha caratterizzato il triennio del Napoli di Sarri od ancora quello che il Napoli ci ha fatto vedere in Europa con Ancelotti, per arrivare, da ultimo, a quello ammirato di Spalletti.
Un gioco che, seppure con varianti non indifferenti e pure ben visibili a seconda dell’allenatore interessato, è stato a mio avviso caratterizzato da tratti distintivi comuni (quelli che appunto possono dirsi avere a loro volta caratterizzato gli ultimi due lustri di storia del Napoli) e che in sostanza possono indicarsi:
i) nella ricerca di una fase difendente impostata sull’aggressione in avanti sia verso il portatore di palla avversario, sia verso gli spazi ed i compagni che questo poteva utilizzare per lo scarico del pallone;
ii) nella ricerca di una costruzione del gioco da effettuare con continuo possesso palla già nei primi venti metri della propria metà campo, con linee di squadra che si muovevano in modo sistemico e sincronizzato (a restringere o ad allargare il campo a seconda delle situazioni che venivano a crearsi per via del pressing avversario) e con pallone sempre nei propri piedi (la scelta e l’esplosione di registi come Jorginho e Lobotka sono allo stesso tempo causa ed effetto di tale impostazione);
iii) nel predisporre baricentro di squadra e linea difensiva molto alti in fase di possesso del pallone nostro, così come in fase di possesso del pallone da parte degli avversari, nel primo caso per garantire molteplici soluzioni di scarico del pallone (anche ai due centrali di difesa quando c’era da re-iniziare l’azione), nel secondo caso per raggiungere l’effetto della riduzione dello spazio di campo che si doveva attaccare ed occupare nella fase di pressing alto e per opporre grande densità sulle contese per le seconde palle;
Gioco da intendersi come categoria concettuale
iv) nel privilegiare una manovra che fosse frutto di sincronicità di movimenti tanto dei portatori di palla, quanto degli uomini chiamati ai movimenti per portare via i raddoppi avversari o per funzionare da sponde e rinterzi nella manovra, quanto degli uomini chiamati a funzionare da “terzo uomo” (quello che ha il compito di gettarsi nello spazio così apertosi per ricevere il pallone nella fase conclusiva dell’azione);
v) il tutto attraverso soluzioni studiate e provate a ripetizione (in allenamento ed in partita), e quindi pre-ordinate e pre-confezionate con metodo allo scopo di arrivare a quel valore aggiunto che ogni “schema” ben riuscito può attribuire ad una squadra che senza lo stesso avrebbe una minore incisività per via della non eccelsa qualità individuale di tutti gli effettivi in campo;
vi) a chiusura, nella proposizione di tale impostazione anche quando contro si avevano squadre con individualità più forti, mantenendo il marchio di fabbrica a prescindere da contesto ed avversari;
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Il Napoli e il calcio effettivamente collettivo
In fondo, è di questo che si parla quando si parla di gioco, ed è di questo che si parla quando si parla di ciò che il Napoli ha, con le dovute varianti, espresso in questi anni.
Gioco da intendersi come categoria concettuale in grado di contenere tutte le caratteristiche sopra elencate, che in sostanza viene nel contemporaneo ancorato ad un ulteriore elemento che oggi lo contraddistingue: la bellezza che questo produce agli occhi di chi guarda.
Perché – forse un po’ esageratamente, anche se in modo non del tutto peregrino – quando oggi si parla di gioco si intende, più o meno consapevolmente e consciamente, richiamare un particolare modo di occupare il campo e di “attraversare” le partite che produce quel tipico divertimento emotivo che ci agita quando questo diventa effettivamente collettivo.
Ebbene, diventa effettivamente collettivo, il gioco, quando chi lo guarda ha l’esatta inconfutabile idea che tutti gli uomini in campo eseguano movimenti di tale esatta sincronicità, di tale perfezione da arrivare a muoversi nel campo come un unico insieme, un unico giocatore, un unico corpo.
Il gioco collettivo e la bellezza
Gioco come prodotto (se non sinonimo) di perfetta organizzazione, quindi; perfetta organizzazione come prodotto (se non sinonimo), a sua volta, dell’efficace e consapevole movimento collettivo di più giocatori che in quella determinata fase di gioco, ed a seconda di ciò che la fase di gioco richiede, si dividono compiti, zone ed micro-obiettivi per arrivare a raggiungere quello finale che quella determinata fase di gioco impone (il gol; evitare il gol; raggiungere la superiorità numerica, etc.).
Senza voler ridurre tutto il calcio alla semplice organizzazione (solo uno stupido lo fa o può pensarlo, altrimenti non ci saremmo innamorati di Maradona: ma qui si sta parlando di altro), piaccia o no è soprattutto quando si declina la perfetta organizzazione in questione che il gioco diventa effettivamente collettivo, ed è allora che ne cogliamo una buona parte di bellezza.
È anche qui che questi due termini – gioco (collettivo) e bellezza – cominciano a viaggiare unitamente ed indistintamente nell’immaginario tanto dello spettatore, quanto di chi racconta (per quest’ultimo, al netto della finta epica che ne contraddistinguono le narrazioni).
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Identificare e caratterizzare
Tutto questo per dire che la storia recente del Napoli è stata, per fortuna, caratterizzata dalla ricerca di quel gioco che sopra si è cercato di identificare e caratterizzare.
Dico per fortuna per due motivi.
Primo perché ci siamo divertiti: piaccia o no, è sempre spettacolare e dà estasi agli occhi ed al cuore dello spettatore vedere muoversi undici uomini, in un campo in genere 110 metri per 80, in modo sincronizzato ed organizzato (perché si sa quanto sia difficile farlo).
Secondo perché attraverso il gioco il Napoli ha costruito un “marchio” (anzi, il gioco ne è stato un “marchio” di fabbrica) tale da comportare sia un eccellente veicolo di immagine per le cronache giornalistiche sportive, sia una grandissima attrattività per i giocatori che, consapevoli di questo, sapevano che sarebbero venuti a giocare a pallone in una realtà contemporanea (perché alla ricerca di ciò che oggi lo spettatore cerca guardando una partita di calcio) ed in grado di esaltarne le doti tecnico/atletiche, dunque in grado di fare cassa da risonanza per le big europee che vanno a pesca di calciatori proprio in realtà come la nostra.
Perché, non bisogna dimenticarlo, il Napoli è una squadra di passaggio, non di arrivo: in tanto può sperare che giovani e/o promettenti calciatori ci vengano a giocare in quanto questi, attratti dal “marchio” di cui sopra, sanno che il Napoli stesso può (e continui ad) essere per loro un ottimo trampolino di lancio.
Il Napoli non è Kvaratskhelia ridotto a giocare come Mannini
Ed allora, io starei ben attento a fare le battaglie contro i dogmi da 4-3-3, così come starei ben attento ad esultare all’idea di essercene liberati.
Perché da un lato penso che rispetto a quel tipo di dogma ci si riferisse, più nello specifico, alla ricerca (anzi, alla continuazione della ricerca) del tipo di bel gioco di cui parlavamo prima, che ha permesso al Napoli di arrivare a stare dove ora sta (anzi, dove è stato fino alla fine della passata stagione); la questione, in sostanza, non è quella dello schema originario con cui occupare il campo, ma è quella del modo con cui lo si occupa e si impostano le partite.
Dall’altro lato penso che in tanto il Napoli può sperare di continuare a fare la vita di quest’ultimo decennio in quanto continui ad investire per essere attrattivo (per stampa e marketing, e quindi per introiti; per i giocatori, e quindi per garanzia di continui ricambi all’altezza dei precedenti), posto che l’unico modo di esserlo è quello di avere e mostrare un gioco come quello mostrato fino all’anno scorso.
Con tutti i limiti che pure possono esserci, certo, ma sempre alla ricerca della volontà di divertire attraverso lo stupore che desta l’organizzazione arrembante nella costruzione della nostra azione e nella distruzione dell’altrui azione.
Rivisitare questo approccio, tradirlo per una qualche presunta voglia di praticità o di atteggiamento speculativo in campo, ovvero anche di rinunzia a giocare od altre cose simili significa condannarsi ad anni ed anni futuri di mediocrità, anni in cui si può tornare a vedere, per esempio, Kvaratskhelia giocare come il Mannini della Sampdoria del 2010 come è successo nella finale di super coppa (anche in 11 contro 11).
Non penso che vi divertiate a vederlo. E non penso che lui sarebbe venuto a Napoli, negli anni di lancio della sua carriera, per giocare così.