Quanti due di picche (noi a Napoli li chiamiamo pali) ha rimediato il club dello scudetto. Altro che appeal, chi ha ambizione qui non viene
In principio fu Thiago Motta, a Napoli non vuole venire più nessuno
C’è stato un periodo, nella storia recente del Napoli, in cui i social pullulavano d’ironia per tutti i pali che gli azzurri colpivano in campo. Tra il 2015 e il 2020 furono 96, con Insigne recordman che ne colpì 27. Ecco, la situazione era molto grave ma pur tuttavia, per citare Ennio Flaiano (che però parlava di politica), non era seria. All’epoca il Napoli aveva un progetto tecnico, giocava a pallone, addirittura si concedeva l’ardore di creare qualche palla gol. Ora, che il Napoli i pali in campo non li prende più perché a tirare in porta non ci arriva più di un paio di volte a partita, capita che i pali li prenda soprattutto fuori dal campo. E allora sì: la situazione è molto grave, ma stavolta è perfino seria.
Con lo scudetto il Napoli ha perso appeal
Il punto è che il presidente De Laurentiis, che per anni è stato accusato da un corpaccione piuttosto consistente dell’opinione pubblica locale di “non avere un progetto” e di “non voler vincere”, da quando poi ha vinto – e da quando è dunque cominciato un delirio di onnipotenza che sul Napolista abbiamo raccontato a più riprese – anziché vedere aumentato l’appeal della sua azienda è finito col cominciare a prendere, fuori dal campo, solo ed esclusivamente pali. Sì, pali. Nel linguaggio gergale, il palo è il due di picche, il rifiuto dopo un corteggiamento.
Di che pali parliamo? Proviamo ad elencarli:
- Il palo di Thiago Motta, che ha rifiutato la panchina degli azzurri per rimanere (a far faville, peraltro) su quella del Bologna (attenzione: il Bologna, non il Madrid). Le cronache riferiscono di una domanda che il tecnico felsineo pose a De Laurentiis prima di rifiutare: “chi è il direttore sportivo?”. Intelligenti pauca. Noi ce lo chiediamo ancora, tra l’altro: chi è il direttore sportivo del Napoli?;
- Il palo di Danso, che piuttosto che puntare i piedi per unirsi ai campioni in carica ha preferito rimanere al modestissimo Lens, con annesso video-sfottò dei francesi ai “cortigiani del Sud Italia”: un punto comico ma piuttosto basso della sessione estiva di calciomercato;
- Il palo dell’enfant prodige Gabri Veiga, che dopo una trattativa mediatica ed estenuante ha preferito, dopo il Celta Vigo (non il Barcellona) la prigione dorata della Saudi Pro League a una squadra che aveva appena vinto il campionato;
- Il palo di Antonio Conte, che con Garcia virtualmente esonerato s’affrettò con una storia su Instagram nel bel mezzo di un pomeriggio ottobrino a chiarire che aveva ancora bisogno di tempo per sé e per la sua famiglia;
- Il palo di Radu Dragusin, uno dei difensori più interessanti del girone d’andata dell’attuale Serie A che però – vale la pena ricordarlo – fino a quando il Napoli alzava la coppa giocava in Serie B;
- Il palo (ancora non definitivo, pare) di Lazar Samardzic, che comunque pare ben più affascinato dal farsi sei mesi di panchina all’Udinese per poi approdare alla Juventus che dalla prospettiva di venire a colmare il vuoto lasciato da Elmas (e l’eredità di Zielinski?) a Napoli.
Arrivano i Natan, i Mazzocchi, i Cajuste (oltre a Garcia e a Mazzarri)
Le vicende di Dragusin e di Samardzic riaprono poderosamente un tema di cui si era già discusso d’estate: come mai, nonostante la vittoria dell’ultimo campionato, nonostante un calcio che fino a pochi mesi fa era considerato tra i più cool d’Europa, allenatori e calciatori (con la buona pace di Conte, che è un top) non di prima ma di seconda e di terza fascia, che provengono da squadre pacificamente più modeste del Napoli, non si strappano i capelli per il Napoli come farebbero per la Juventus, per il Milan, forse finanche per la Roma? Certo, Dragusin poi è andato al Tottenham, ma è bene precisare che il Tottenham nonostante l’ottimo lavoro di Postecoglou è quinto in classifica in Premier e non gioca l’attuale edizione della Champions League. Insomma: non sta scritto da nessuna parte che un giovane calciatore del 2002 cresciuto calcisticamente in Italia debba preferire gli Spurs al Napoli.
Insomma, se tanti indizi fanno una prova la prova è che quelli che arrivano da queste parti dal trionfo-scudetto in poi sono i Cajuste, i Natan, i Paco Mazzocchi (28enne terzino ex Venezia e Salernitana, tanto per riportare un po’ le cose alla realtà), i Mauro Meluso, i Rudi Garcia ed i Walter Mazzarri del 2023 (che non sono quelli di dieci anni fa). Quelli che hanno già raggiunto un determinato status o quelli che hanno un minimo di ambizione guardano inequivocabilmente ad altri lidi. L’unico calciatore degno di nota arrivato a Napoli (preferendo il Napoli al Liverpool, peraltro) negli ultimi mesi, che è ovviamente Lindstrøm, è misteriosamente finito perfino dietro a Zerbin nelle gerarchie.
Il presunto, molto presunto, privilegio di vivere a Napoli
È legittimo chiedersi – e chiedere a De Laurentiis, naturalmente – il perché di tanti rifiuti. Magari sperando in una risposta diversa dalla mielosa tiritera sul privilegio di vivere a Napoli e sulla bellezza di affacciarsi al balcone e vedere il mare, un fatto che, si sa, vale assai più del vil denaro (semicit).
La nostra impressione è che i calciatori (e gli allenatori) non vengano a Napoli perché il post Giuntoli e il post Spalletti è semplicemente indecifrabile. Una confusione totale, senza precedenti nella gestione illuminata che De Laurentiis aveva avuto in vent’anni d’azzurro. La speranza – che è l’ultima a morire – è che si batta un colpo, anche piccolo, per dire al mondo che il Napoli c’è ancora. Che c’è ancora come progetto. Perché così, francamente, è davvero troppo brutto per essere vero. Si sta aspettando, per il mercato, di capire chi sarà l’allenatore del prossimo anno? Si sta aspettando di prendere un nuovo direttore sportivo? Chi vivrà vedrà.