La docuserie “Raffa”: l’intera sua esistenza segnata dall’abbandono del padre. È rimasta inaccessibile, fino a scegliere di morire praticamente da sola
Nessuno conosceva Raffaella Carrà
Morire da soli. È opinione abbastanza diffusa che sia il modo peggiore di andarsene. Soprattutto se il passaggio avviene nella consapevolezza. Raffaella Carrà è praticamente morta da sola. Per scelta. È quel che emerge dalla docuserie “Raffa” in onda su Disney, diretta da Luchetti, prodotta da Freemantle. Nessuno degli intervistati sapeva della sua malattia. Non è chiaro se lo sapesse Sergio Japino che compare solo in un passaggio ma non parla. Lei si ricovera e dopo un mese muore. Tutti gli intervistati, tra cui la figlia di Boncompagni, hanno solo notizia della morte. Evidentemente ha voluto che nessuno andasse a trovarla. È un aspetto che ci ha molto colpito. E che fa il paio con la domanda di un autore spagnolo che ha lavorato con lei: “Raffaella, perché odiavi che la gente ti baciasse?”
«Come donna lascio a desiderare un po’» disse a Enzo Biagi
Aldo Grasso nella sua rubrica sul Corsera scrive di processo laico di beatificazione di Raffaella Carrà, come se stessimo parlando di Pablo Escobar. A noi la docuserie è piaciuta. Emerge il personaggio. Nessuno ne parla apertamente male (non se ne capirebbe il motivo), ma i suoi difetti non vengono nascosti. L’obiettivo è cercare di rendere il personaggio, descriverlo. E la docuserie ci riesce. Il fulcro è certamente la figura paterna. L’abbandono del padre. Toccante il momento in cui una sua assistente (Caterina Rita) racconta di quando il padre diede notizie di sé, da un letto di ospedale. Lei le disse: “occupati di lui, spendi tutto quel che c’è da spendere per farlo stare al meglio ma io non voglio vederlo, non voglio saperne niente”. Un dolore che la accompagnerà per tutta la vita, che segnerà il suo rapporto con gli uomini e che in fondo le farà vivere la sua esistenza come immersa in una sostanza gassosa. Raffaella Carrà è sempre altro da sé. Scegliere di non rivelare a nessuno (o quasi a nessuno) della sua prossima morte, vuol dire fondamentalmente che una porzione fondamentale di sé è sempre rimasta inaccessibile. E non è soltanto la differenza tra Pelloni (il suo vero nome) e Carrà. Raffaella è inafferrabile, sfuggente, angolosa. Eppure fragile. «Come donna lascio a desiderare un po’» dichiara a Enzo Biagi. E non nasconde il suo dolore per non essere riuscita a diventare madre.
L’arrivo di Raffaella Carrà nella Spagna franchista
Raffaella esigeva rapporti non sappiamo se morbosi, sicuramente totalizzanti. Non è così scontato che in Italia sia chiara la dimensione mondiale del successo di Raffaella Carrà, in particolar modo in Spagna (dov’era venerata, molto più che da noi) e in Sudamerica. Ci sono le tante vite artistiche che ha vissuto: il cinema a Hollywood che lei volle abbandonare, fino alla chance sfruttata alla grande in Rai con il varietà “Io Agata e tu”. Fu la svolta. Da allora non tornò più nelle retrovie. Ma non rimase mai ferma. Sconvolse l’Italia bacchettona col Tuca Tuca e all’apice del successo in Rai lasciò tutto e andò alla conquista della Spagna che era agli sgoccioli del franchismo. Lei, italiana, divenne diva nella Spagna nazionalista, scalzò le figure classiche della tradizione. Uno shock. Ma anche dalla Spagna spiccò il volo e partì per una tournée mondiale che si interruppe solo quando il successo di pubblico divenne tale da non essere più gestibile. Decisiva fu una serata in cui venne assediata dalla folla e si spaventò. Decise che poteva bastare. Amava il pubblico ma a distanza. Odiava che la baciassero, appunto.
«È riuscita a diventare il padre di sé stessa»
Potremmo proseguire a lungo ripercorrendo la sua carriera. Da “Pronto Raffaella” a “Carramba che sorpresa” programmi condotti in diretta. Splendido il racconto di una sua collaboratrice spagnola che ricorda quando la portò in un noto locale gay di Madrid e descrisse la reazione quando la videro scendere la scala: «Impazzirono». È stata un’icona del mondo omosessuale. Le testimonianze spagnole sono più intense di quelle italiane. I racconti sentiti. Quasi commossi. Traspare grande ammirazione per la sua abnegazione, il suo stakanovismo. Ma chi centra la definizione migliore è Caterina Rita, sua ex assistente, che dice: «Ha chiuso il cerchio della propria esistenza riducendo a diventare il padre di sé stessa, riuscendo a sostituire quella figura che non ha mai avuto».
Una citazione la merita Bob Sinclair che ricorda quanto sia aumentata la propria notorietà dopo aver cominciato a cantare “A far l’amore comincia tu”. Oltre tre ore alla fine delle quali resta la sensazione che il successo sia un po’ come il potere: una scatola vuota che sembra piena solo agli occhi degli altri. E che non potrà mai riempire le nostre lacune. Ma avere successo, segnare la storia del costume di almeno due Paesi, è affare che riguarda solo chi ha qualcosa in più. Anche se il prezzo da pagare è elevato.