Al Corsera racconta del rapporto con Maurizio Costanzo: «Io ero un po’ stronzo: quando ho cominciato a fare il regista, non volevo che parlasse di me. Ed ero anche un po’ snob»
Il Corriere della Sera intervista Saverio Costanzo, che ja dedicato il suo ultimo film, «Finalmente l’alba», a suo padre, Maurizio. È una delle pochissime interviste in cui il regista parla di suo padre e del loro rapporto di cui non ha mai voluto fare mostra
«Per timidezza. Per riservatezza. Non solo non volevo usare il suo nome; non volevo socializzarmi come il figlio di Maurizio Costanzo. Non intendevo apparire come quello seduto su una fortuna, su un privilegio. Alla fine il privilegio c’è comunque; ma io non lo sapevo».
Il rapporto con Maurizio Costanzo è stato difficile, soprattuto nei primi anni della sua carriera
«Io ero un po’ stronzo: quando ho cominciato a fare il regista, non volevo che parlasse di me. Ed ero anche un po’ snob. Lui no. Lui era un uomo di tv; e un uomo di tv è di tutti».
Tanti ricordi di Costanzo
«Lo rivedo nella sua camera da letto, affacciata su una chiostrina, con una coperta anni 70, una trapunta bianca con i quadrati neri. Papà non ha mai dormito con mamma, come non credo abbia mai dormito con nessuna delle sue mogli. Stavamo in centro, in via dei Banchi Nuovi, al secondo piano. Ma lui se ne è andato di casa molto presto, quasi subito».
E per lei suo padre chi era?
«Una figura controversa. Non mi aprivo, non gli mostravo il mio dolore. Di consigli ne ho chiesti più a De André o a De Gregori, i cantautori che ascoltavo. I detrattori lo additavano come un uomo di potere, come un navigatore amico di tutti, di Berlusconi e di D’Alema e anche a me spesso il suo lato pubblico risultava inautentico. Ma poi nel tempo ho scoperto che non faceva calcoli, semplicemente si muoveva come se dovesse dare davvero tutto a tutti. Gli chiedevo: ma perché fai un sacco di lavori, pure la tv di San Marino? E lui rispondeva: perché non riesco a dire di no, per rispetto del lavoro che oggi c’è ma domani? In realtà, vede, era autenticamente umile. E su tante cose aveva ragione lui. Alcune le ho scoperte solo dopo la sua morte».
Quali?
«Papà aiutava in segreto molte persone, gente comune e colleghi dello spettacolo, no, non le dirò i nomi. Lei non ha idea di quante persone mi abbiano detto: tuo padre mi ha dato il consiglio giusto, tuo padre mi ha risolto un problema, tuo padre mi ha salvato la vita…».
La gita ad Arcore da Berlusconi
Mi racconta ancora un episodio di vita con lui?
«Avevo quattordici anni, papà mi telefona e mi chiede: “Ce l’hai una giacca? No? Compratela. Passo a prenderti tra due giorni”. Prendemmo l’aereo privato che per quel tratto divideva con Valentino, lo stilista».
C’era anche Valentino?
«No, c’erano i suoi tre carlini, con il domestico filippino. Arrivammo a Milano e andammo ad Arcore da Berlusconi. Fu gentilissimo, mi portò in giro per un’ora a vedere la villa, mi riempì di gagliardetti del Milan: era il 1989, l’anno della sua prima Champions. Poi ci mettemmo a tavola, Berlusconi indossava una tuta di velluto. Papà era insolitamente teso. A un tratto un omone con i pantaloni alla zuava e la piccozza bussò alla vetrata: era Craxi con sua moglie Anna, reduce da una passeggiata nel parco di Arcore».
Pare un film del suo amico Sorrentino.
«Invece è vero. Craxi dice a mio padre: “Le devo chiedere aiuto per un grande progetto, riguarda le donne socialiste”. Mio padre risponde con ossequio, io lo guardo con stupore e lui in imbarazzo mi rivolge uno sguardo d’intesa, come a dire: ne parliamo dopo. Prosegue la visita ad Arcore, compresa la famosa necropoli privata. Il giorno stesso ritorniamo a Roma. Al momento di salutarci, mio padre indugia un attimo, poi mi dice: “Comunque, quella cosa per Craxi, io non la farò mai”. Io gli sorrido: “Ciao papà”. “Ciao Save’”».