Nella pausa sul 5-5 del terzo set ha dominato i pensieri e il contesto, ha spento ogni isteria. E’ diventato un fuoriclasse dal cervello armato
Uno qualunque dei migliori cento giocatori del mondo avrebbe scosso la testa, respingendo la propria stessa voce che lo rincorreva. Non pensare, lascia stare. Ma i pensieri arrivano e basta, come dice Ricky Gervais. E quando hai pensato è già troppo tardi. Un altro, al posto di Sinner, avrebbe fatto finta di non sentire l’arbitro che lo invitava ad accomodarsi, che la faccenda sugli spalti è lunga, Jannik. Qualcuno s’è sentito male, è svenuto. Tocca aspettare. E quello sarebbe stato il punto di rottura per chiunque. Si era sul 5-5 40-40, con due set già in cassaforte. Contro Djokovic, in semifinale agli Australian Open.
Un paio di metri per scollinare, da consumare espressi, magari in apnea. E invece no. Si ferma tutto. Quello è il momento in cui solitamente l’avversario di Djokovic inciampa, ritrova una lucidità che non voleva, e nella razionalità si scopre incapace di far fronte all’eventualità che davvero lo possa battere. E infatti, quasi sempre, una manciata di minuti dopo perde. È successo, che dio ci salvi, anche a Roger Federer. A Wimbledon. È il momento-Maverick: “Lì non c’è il tempo di pensare, se pensi sei morto”. Cos’è Sinner, se non un top gun?
Uno qualunque dei più talentuosi del circuito, insomma, avrebbe tentato di arginare la pausa con una routine. Ma i numeri della leggenda avrebbero finito per acchiapparlo, e strattonarlo. E mangiarselo vivo.
Quattro anni che uno non batte Djokovic per due volte di fila, e per due volte nelle ultime tre partite, Jannik.
Sei anni – sei! – e 33 partite di fila che quello non perde a Melbourne, Jannik.
Solo Nadal e Federer sono riusciti a battere Nole al Masters, in Coppa Davis e in uno Slam, Jannik.
Sono 19 anni che la finale degli Australian Open la gioca almeno uno di quei tre, Jannik.
Sei pronto, Jannik? Davvero?
E allora Jannik si siede, e pensa. Ma mica a queste facezie da perdente… No. Lui rimugina sul suo piano di gioco. Calcola il vento. Sa quando servirà con le palle nuove. Ha il cervello impastato di cemento armato. Un solo blocco, freddo, di concentrazione.
Torna in campo, e Djokovic fa due cose in sequenza che avrebbero abbattuto un cavallo, se i cavalli giocassero a tennis: prima un ace, e poi nello scambio seguente un dritto incrociato che rattrappisce sul nastro. Si va al tiebreak. Sinner recupera da 2-4 a 6-5. Match point. Annullato. Perde il set. Djokovic si prende la pausa-bagno tattica. Uno qualunque dei campioni di cui sopra finirebbe preda dello sconforto, del destino infame, di quel futuro incombente che si prefigura: onorevole sconfitta al quinto set, stretta di mano, “bravo Jannik”.
Il campione nasce in quel preciso istante, quando si ripresenta per il quarto set e prende a dominare tutto. La paura, la stanchezza, le percentuali di prime che s’afflosciano, i pugnetti volitivi del serbo. Smorza il tremolio di fondo. Spenge l’audio delle voci fuori campo, le trasforma in un rumore bianco. Demolisce l’estetica dell’isteria cui ci ha abituati la storia del tennis.
Sinner diventa Djokovic. È un passaggio di stato simbiotico. Lascia al fuoriclasse l’armamentario della sconfitta, per una volta. Si alza sui pedali – valgono qui mille altre metafore d’impresa – e vola in fuga per la vittoria. Non è un dritto, un rovescio, o lo slice, o la palla corta… È la testa. Quella che ad un certo punto accoglie il pensiero che arriva. E non lo subisce. Lo usa.