Oggi mettono le mani davanti alla bocca per non far leggere chissà quale labiale. Il disincanto è un placebo da esibire ai dimentichi di figurine Panini
Il calcio è sempre stato un mondo chiuso, lo raccontavano già Pupi Avati e Sorrentino
Gli ultimi minuti del pallone
«Di’ un po’ Nick, tu che sei un ragazzo giovane, moderno… Che differenza ci può essere tra un uomo e una donna, si insomma, quanti anni può avere un uomo più di una donna senza che si faccia ridere dietro?»
Ugo Tognazzi cercava comprensione da Nick Novecento. In mezzo al traffico. S’era innamorato della moglie del presidente. Di almeno quattro decenni più giovane. Faceva pure il dirigente di quei biancorossi lì. Il tempo, nella vita e nel calcio, può diventare una variabile assai soggettiva. O un’ossessione. L’ultimo coach del Napoli, per esempio, è diventato popolare anche grazie al gesto dell’orologio. Quello con le dita tese a indicare il recupero. Durante il suo fugace ritorno la squadra “Campione d’Italia” uscente ha bazzicato disperatamente la “Zona Cesarini” d’antan.
Il film di Pupi Avati, sopracitato, si intitola proprio “Ultimo minuto”. Racconta senza grandi pretese introspettive un mondo chiuso dentro allo spogliatoio. Nient’affatto disposto ad aprirsi sul serio. Ancora oggi. Le mani davanti alla bocca di calciatori e addetti ai lavori sono diventate una costante. Messe apposta per non far leggere chissà quale labiale. Almeno da quando le partite vengono trasmesse su canali dedicati e piattaforme televisive. Le trasmissioni tv “autoretrocesse” a bar sport di paese. Con adeguamento al ribasso conseguente degli storici quotidiani. Chiacchiericcio, gossip, fesserie social, preferiti all’editoriale firmato di una volta. Chi potrebbe mai appellare “Rombo di tuono”, adesso, l’attaccante della Nazionale?
Però, i minuti degli incontri restano sempre novanta. Mentre il cosiddetto “additional time”, buono a riequilibrare i momenti persi dovuti alle interruzioni di gioco, è diventato una sorta di supplementare di coppa. Dietrologie e discussioni isteriche ne beneficiano per ulteriori miserie. Eppure, resta un ultimo secondo della gara. Sovente decisivo, a prescindere. E pazienza se le lancette vanno leggermente spostate. Davanti al risultato bloccato rimane un’emozione onesta. Libera da pastoie, tecnologia, tormentoni di ultras e giornalisti portabandiera. Kvaratskhelia contro il Verona, ultimamente, è l’esempio ideale. Domenica scorsa ha replicato Ngonge col Genoa. Di nuovo in rimonta. Certo, la cartina di tornasole massima è il gol scudetto di Raspadori alla Juve. Con Allegri furente che lascia in anticipo la panchina dell’Allianz a Torino. 93° spaccato di un aprile fa. Sembra un secolo. È appena ieri.
Invece, gli anni ’80 immortalati dal regista bolognese (tra calciatori corrotti, campioni adolescenti e talent scout con la faccia di Abatantuono) sono lontani. Somigliano, rievocati a distanza di tre lustri, all’esordio del premio Oscar, Paolo Sorrentino. Gli atleti poco atletici, lo spogliatoio “urlato “dell’intervallo, le magliette di lana sudata prive di sponsor. Con Di Bartolomei ispirazione e rimpianto dentro agli occhi tristi di Andrea Renzi ne L’uomo in più. Le scommesse, i ritiri, la fragilità di chi smette, le notizie a comando, le curve a orologeria, i direttori sportivi, i proprietari padroni. Esisteva già tutto. Persino l’algoritmo “indossato” da Lino Capolicchio e Marzio Honorato. Non è cambiato nulla. Perché la passione è una fede al quale il tifoso s’aggrappa. La logica mica serve? Il disincanto è un placebo da esibire ai dimentichi di figurine Panini e ginocchia sbucciate. I campetti sterrati lasciano piccole, meravigliose, cicatrici. Un indelebilità che i tatuaggi si sognano. Buona fortuna, allora, al prossimo allenatore di questo scorcio di stagione. Noi si incrocia le dita, a prescindere. In fondo siamo disincantati nel candore. “È un mondo adulto, si sbaglia da professionisti”. Paolo Conte in panchina, forse, sarebbe meglio di Guardiola.