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La lezione arbitrale del basket: vanno al Var anche se nessuno li chiama (e i calciomani si meravigliano)

Nella finale di Coppa Italia è stata corretta una decisione decisiva e nessuno ha protestato. Il calcio ha alterato la nostra visione dello sport

La lezione arbitrale del basket: vanno al Var anche se nessuno li chiama (e i calciomani si meravigliano)
Db Firenze 14/02/2018 - Postemobile Final Eight coppa Italia di basket / A|X Armani Exchange Milano-Segafredo Virtus Bologna / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: istante replay arbitri

“Arbitraggio impeccabile!!!”. Lo stupore rimbalza dagli smartphone col crepitio dei pop corn. Una dopo l’altra le chat fino ad un attimo prima depresse dal coma del Napoli Calcio rifioriscono per l’esaltazione del Napoli Basket. La Gevi ha appena vinto la Coppa Italia battendo in finale l’Olimpia Milano – sproporzioni di budget fuori scala, categorie di peso non assimilabili – e chi è solitamente abituato alla grammatica del pallone non ci si raccapezza. Che roba è?

E’ successo che a 9 secondi dal termine d’una finale da tachicardia, con Napoli impegnata a difendere il risicato vantaggio sul 73-71 (la magia del tempo effettivo: può cambiare tutto in nove secondi) uno dei tre arbitri dà una rimessa in gioco a favore di Milano, dopo una carambola. Lo stesso arbitro istintivamente si ferma e – da solo – decide di andarsela al rivedere al monitor. Una sorta di var ad auto-chiamata che nel calcio non esiste. Nel basket non c’è bisogno che qualcuno, un allenatore, un giocatore, la richieda. Nessuna scenata isterica, nessun parapiglia. Due arbitri vanno al monitor, e in diretta a casa ascoltiamo cosa si dicono mentre guardiamo con loro le immagini. La trasparenza, altro che “Open Var”, a posteriori sono bravi tutti.

“Rimessa Napoli”. L’arbitro ammette l’errore, cambia idea. Quello è un cambio di possesso sanguinoso: evira Milano, gli toglie la possibilità di pareggiare il match o di chiuderlo addirittura con una tripla. Nessuno protesta, qualcuno sulla panchina del Napoli sorride. Il Napoli vince. Che mondo è mai questo?

Ed eccoci alla rivelazione: “Arbitraggio impeccabile”. Che è un dato di fatto: alla moviola si vede perfettamente che il giocatore di Milano sfiora la palla mentre ha un piede sulla riga. E’ fuori, amen. Ma è il contesto che deve adattarsi, la nostra predisposizione a guardare lo sport con gli occhi del tifoso di calcio. E’ un’occasione imperdibile: c’è un Napoli in finale, contro una corazzata. Anche chi non segue il basket abitualmente è davanti alla tv ad azzannare il divano. L’analisi successiva sconta lo sconcerto: l’arbitraggio impeccabile non è la regola, in questa distorsione della realtà cui siamo avvezzi; è un atto di eroismo, una rivoluzione, una sovversione. L’arbitro non è richiamato al suo dovere dalla parte offesa: ci va da solo a controllare se ha sbagliato o meno. Si corregge senza fare una piega. Ed è – non c’è altro modo per dirlo – una cosa normale.

Il passaggio successivo, per contrasto, è la nostra anormalità. La percezione alterata dello sport che ci raccontiamo come prassi, regolarità. Che sopportiamo, chi più chi meno, alimentando un’abitudine malsana al vittimismo complottista. Trasportate la succitata situazione in una finale di calcio, una piccola squadra contro una Juve qualunque. Cosa sarebbe successo?

Il basket peraltro non è il fioretto. E’ uno sport durissimo, fisicamente violento, con un regolamento complicato e minuzioso. Ci sono ben tre arbitri a governare un campo di 30 metri per 20. C’è la var a chiamata, il tempo effettivo (lo stesso utilizzo del cronometro è parte sensibile), e gli arbitri fischiano in una continua interpretazione delle situazioni di gioco. E si gioca in palazzetti spesso in fiamme, in cui riecheggia il rumore degli spalti peggio che negli stadi di calcio. Molto peggio. L’effetto è quello di una pentola col coperchio, in ebollizione. Insomma: no, non è affatto “più facile”.

Ma è sport. Un posto – per molti evidentemente esotico – nel quale la congiura è confinata in una nicchia, e gli arbitri per quanto comunque offesi fino a tre gradi di parentela non sono il soggetto del contendere. Una realtà nella quale un arbitro, a nove secondi dalla fine, sa che una sua decisione sbagliata potrebbe cambiare l’esito della competizione e – da solo – capisce che ha bisogno di un aiuto. Ho la moviola, la uso. Non c’è da farne un dramma. Lo sbigottimento successivo dice invece un po’ di cose di noi.

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