Al Guardian: «Papà veniva a prendermi agli allenamenti. Non potevo farmi la doccia per non perdere la metro, tornavo all’una di notte»
Aitana Bonamti, pallone d’oro femminile, reduce dal successo in Nations League con la Spagna, si racconta al Guardian.
Com’è nato l’amore per il calcio?
«Ho sempre detto che è stato qualcosa di innato. Ho cominciato a giocare a scuola con i ragazzi perché allora non c’erano ragazze che giocassero. Avevo circa sei o sette anni e giocavo anche a basket. Direi che è stato innato perché nella mia famiglia non si viveva per il calcio [ma] sono nata con quella voglia di giocarlo».
Sei arrivata al Barça all’età di 14 anni. Racconta quel trasferimento
«Giocavo a calcio proprio nel cortile della scuola e così ho chiesto se potevo iscrivermi alla squadra di calcio della mia città, il Club Deportiu Ribes. Sono stata lì per quattro o cinque anni e poi sono andata in un’altra squadra, il Club de Futbol Cubelles. Per tutti gli anni che sono stata lì sono stata l’unica ragazza della squadra. Però in Catalogna c’è una regola secondo la quale come cadetto [14-15 anni] non puoi più giocare in squadre miste. È stato allora che ho smesso di giocare con i ragazzi e sono stato fortunata che il Barcellona mi abbia ingaggiato in quel momento».
Bonmati: «Giocare al Barcellona era il mio sogno impossibile, è stato un cambiamento radicale»
Com’è stato per te a quell’età andare in un club così grande?
«Giocare al Barcellona è sempre stato un sogno per me ma l’ho sempre visto come impossibile. Stavo finendo l’anno al Cubelles, sapendo già che quello sarebbe stato il mio ultimo anno con i ragazzi e che l’anno successivo avrei giocato con le ragazze, quando all’improvviso arrivò un fax da Barcellona che mi chiedeva se volevo andare al provino. Le prove non consistevano solo in esercizi. Dovevi allenarti insieme alla tua categoria d’età. Ho giocato un torneo amichevole con loro e per me, dopo aver giocato con i ragazzi per tutti quegli anni, non sapevo cosa volesse dire giocare con le ragazze. È stato un cambiamento radicale nella mia quotidianità ma anche nel modo in cui interagivo con i miei compagni di squadra».
Le difficoltà di giocare con i ragazzi
«Giocando con i ragazzi c’era sempre una certa distanza e non sempre accettavano che ci fosse una ragazza nella loro squadra che giocasse altrettanto bene o addirittura meglio di loro. O anche che avessi un certo carattere. I primi anni [al Barcellona] non sono stati facili a causa del passaggio al gioco con le ragazze, ma era più equo; tutte avevamo attraversato anni difficili. Avevamo vissuto in condizioni peggiori semplicemente per il fatto di essere ragazze, e nel calcio ancora di più. È stato un cambiamento interessante che a volte mi piace ricordare, perché non è stato facile».
Cosa pensi quando vedi a che punto sei della tua carriera
«So che nessuno mi ha regalato nulla per essere dove sono. Dietro c’è molto lavoro. Ricordo ancora quando tornavo a casa dall’allenamento con mio padre, prendevamo i mezzi pubblici e tornavo a casa all’una di notte. Dovevo lasciare in fretta l’allenamento perché altrimenti avremmo perso il treno. Non potevo nemmeno farmi la doccia sul campo di allenamento. Ci sono stati anni difficili ma la resilienza di cui ho parlato ha dato i suoi frutti. Quando guardo ciò che sono riuscita a realizzare ora, so che non è merito della fortuna ma di tutto il duro lavoro svolto nel corso degli anni».