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Il figlio di Re Cecconi: «quando incontrai Ghidin, gli dissi chi ero. Mi trattò in modo sfuggente»

A Repubblica. Ghidin era col padre nella gioielleria quando fu ucciso. «Se papà avesse giocato in una squadra del Nord, sarebbe stato più tutelato»

Il figlio di Re Cecconi: «quando incontrai Ghidin, gli dissi chi ero. Mi trattò in modo sfuggente»

Repubblica ospita oggi un’intervista che è piuttosto uno sfogo di Stefano, il figlio di Luciano Re Cecconi, calciatore della Lazio scudettata e della Nazionale. Un campione che il 18 gennaio 1977, nel quartiere Fleming di Roma, fu ucciso da un colpo di pistola del gioielliere Bruno Tabocchini che, spiegò, lo aveva scambiato per un rapinatore. Era in gioielleria col compagno di squadra Pietro Ghidin citato dal figlio nell’intervista.

«Essere ricordati per quello che non si è mi sembra un’infamia, era diventato campione partendo dal lavoro nella carrozzeria di Nerviano da dove ogni sera, tirata giù la saracinesca, faceva in bicicletta quindici chilometri ad andare e quindici a tornare per allenarsi con la Pro Patria di Busto Arsizio. Quanti sacrifici… altro che un calciatore viziato e superficiale. Vorrei gridarlo ai quattro venti chi è stato mio padre davvero, ma poi preferisco tacere».

La morte di Re Cecconi

Stefano non ha ricordi diretti del padre, ma se li è costruiti attraverso i racconti e i ricordi dei tanti amici e compagni che aveva e che gli sono stati vicini

«Tra le tante cose che mi hanno raccontato di lui, c’era la grande passione per i bambini: da Lenzini si era fatto promettere che, finita la carriera, avrebbe allenato le giovanili. Nelle immagini del gol storico al Milan, appena segna corre ad abbracciare i raccattapalle. È un aspetto che aiuta a capire cosa è successo veramente dentro quella maledetta gioielleria».

Cosa intende?

«La bottega era piccola e c’erano due bambini, papà non avrebbe mai messo a rischio la loro vita».

Che idea si è fatto della tragedia e del processo?

«Penso ad un colpo partito inavvertitamente, è successo tutto troppo in fretta. In quegli anni c’era la lobby dei gioiellieri che spingeva per difendere la categoria esposta alle rapine, e credo che sulla scia dell’opinione pubblica si sia preferito chiudere lì la storia. Penso anche che se papà avesse giocato in una squadra del Nord, sarebbe stato più tutelato».

Nella gioielleria c’era il compagno di squadra Pietro Ghedin: ha parlato con lui di quella sera?

«Mi è capitato di incontrarlo nel 2002 alla Pinetina durante un ritiro della Nazionale, quando era il vice di Trapattoni. Gli dissi chi ero, lui mi trattò in modo sfuggente, chiedendomi se volevo i biglietti della partita. Persino Trapattoni fu più espansivo. L’amico che mi aveva accompagnato, e che non sapeva chi fosse Ghedin, mi chiese cosa avessi fatto di male a quell’uomo».

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