Il campo come zona franca. Tutto il baraccone è nauseabondo: da Acerbi all’assocalciatori, al comunicato Figc condiviso da Spalletti
Facciamo così: al giorno due del caso Acerbi-Juan Jesus possiamo smettere di far finta che il problema sia realmente “negro”. Ovvero l’insulto razzista che tutti usano fino a quando non spunta una telecamera, un labiale interpretato di striscio, e allora seppelliamo l’indecenza sotto le perifrasi: “quella frase”, “quella parola”, gli americani la chiamano la “N-word” proprio per sottacerla. E’ lo stesso meccanismo d’autocastrazione che mette gli asterischi alle parolacce per non far arrabbiare l’algoritmo di Google: scriviamo ca**o sperando che il dio dell’enigmistica – almeno lui – non ci fulmini sulla strada del perbenismo.
Per cui ieri Acerbi, tirato per la giacchetta in stazione mentre tornava dal ritiro della Nazionale, continuava a negare di aver detto “una frase razzista”. Perché Acerbi non considera “negro” un’offesa razzista. Quando in serata, poi, Juan Jesus ha riacceso il telefono che Spalletti continuava a trovare spento, ecco la conferma: «Acerbi mi ha detto “vai via nero, sei solo un negro”. In seguito alla mia protesta con l’arbitro ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa aggiungendo poi anche: “per me negro è un insulto come un altro”». Le versioni, dunque, concordano. Solo che non ne hanno coscienza, o rifiutano d’ammetterlo.
La diatriba dunque si protrae sulla questione lessicale, perché nessuno oggigiorno vuol essere espulso dal consesso delle persone perbene, e quindi tutti cavilliamo sui dettagli della storia. Ma andando all’epicentro (come il passante del cavallino rosso di De Crescenzo): il vero problema è l’omertà. Le solenni “cose di campo”. Quell’alterità orgogliosa che i calciatori, gli allenatori, difendono più o meno volontariamente ogni volta (praticamente ogni weekend) che si lasciando andare alla violenza, sia essa fisica o solo verbale. Il resto è fumo.
Lo dice la vittima, Juan Jesus, a caldo: «Quello che succede in campo rimane in campo. Quando l’arbitro fischia tutto finisce. Nel campo ci sta dire di tutto». E’ la retorica della battaglia: lo spogliatoio è una caserma, il campo è un’arena, loro – milionari che urlano come ossessi al primo sfioramento – s’atteggiano a gladiatori. Li crescono così, li annaffiano per tutta l’adolescenza a testosterone posticcio. E poiché hanno visto troppi film di malavita americana, si sono dati un codice un po’ “mafioso”: quello che succede in campo resta in campo. Tipo un Fight Club all’amatriciana: “Prima regola del pallone: non si parla del pallone. Seconda regola del pallone: non dovete parlare mai del pallone”.
Onestamente ci fanno anche un po’ tenerezza. S’illudono che davvero il campo possa essere un luogo franco, mentre un centinaio di telecamere gli ronzano attorno scarnificando ogni gesto, ogni labiale. Prima almeno opponevano una mano a cucchiarella davanti alla bocca, per proteggere i propri segreti. Adesso mimano ad ampi gesti la minaccia di sgozzarsi vicendevolmente. O si prendono a testate, postulando poi sull’intensità della pressione cranica esercitata. E se glielo rinfacci nel post-partita, tu giornalista sei pure un po’ stronzo, anzi… st***zo.
E allora, riavvolgendo il nastro: quando Juan Jesus scrive su Instagram – 24 ore dopo il misfatto – “così non ci sto. Il razzismo si combatte qui e ora”, cancellettando #notoracism, ci chiediamo cosa significhi il qui e l’ora. Perché va bene il rammarico a polemica avanzata, ma un attimo prima – così ci pare di aver compreso – il razzismo andava evidentemente combattuto in campo, come una “cosa di campo”. Segreta, carbonara.
Al netto della contrizione a scoppio ritardato dei protagonisti stessi, c’è sotto una enorme questione culturale, che ci riguarda tutti. Per Acerbi come per una buona parte di italiani “negro” in fondo “è un insulto come un altro”. Vale una mamma “baldracca”, o un figlio della medesima. Siamo noi che la mettiamo giù così pesante, o peggio loro: i neri. Per cui dobbiamo anche sorbirci le risposte un po’ spocchiose di un uomo – un professionista, un Nazionale – di 36 anni, tipo “gioco a calcio da vent’anni, so quel che dico”. Ah, sì? O del presidente dell’assocalciatori che l’assolve in quanto “ragazzo sereno”. Pare che, a scanso di equivoci, Acerbi avesse anche chiamato Thuram a testimoniare la sua buona fede. Un po’ come gli omofobi che hanno sempre tanti amici gay.
Il comunicato della Figc sulla cacciata dal ritiro di Acerbi (“dentro c’è tutto il mio pensiero”, ha detto Spalletti…) è a suo modo illuminante. “È emerso che non vi è stato da parte sua alcun intento diffamatorio, denigratorio o razzista”. E quindi – per preservare questa benedetta serenità di cui tutti blaterano – lo hanno rispedito a casa. Va salvato l’intento, eh. Ha detto “negro”, ma a sua insaputa. Era tecnicamente incapace di intendere. Sarà stata l’adrenalina. In fondo è colpa del “campo“, le sabbie mobili della civiltà. Tutto lì doveva restare, dicono. Se non è razzismo è omertà. In ogni caso fa schifo.