Il film sullo scudetto lo ha evidenziato: è stato lo scudetto di Spalletti. A Napoli serve un uomo che faccia vita monastica e che pensi solo al calcio

Al Napoli serve un uomo ossessionato come Spalletti. Ce n’è uno solo: Antonio Conte
A molti tifosi del Napoli il film dello Scudetto, Sarò con te, non è piaciuto.
È in parte condivisibile: una retorica un po’ melensa sulla città-protagonista – anche quando le increspature tra tifo e club erano più complesse e annodate –, un impeto di nostalgia e rammarico francamente risparmiabile sull’eliminazione dalla Champions.
È però una pellicola riuscita a evidenziare un aspetto che forse a De Laurentiis non va neanche tanto a genio: è stato lo scudetto di Luciano Spalletti. Non solo delle sue innovazioni tattiche, di un gioco di posizioni ma soprattutto di relazioni all’avanguardia in Europa, del 4-3-3 e del dominio territoriale contro avversari di caratura superiore come Liverpool e Inter.
È stato lo scudetto, mi correggo, dell’ossessione di Luciano Spalletti per la vittoria, del sacrificio calvinista del divano-letto comprato per dormire a Castel Volturno. A volte Spalletti remava contro tutti: club, giocatori, ambiente. Contro il loro comprensibile entusiasmo di metà campionato e contro la depressione estiva, dovuta alle partenze dei senatori.
Spalletti che chiede al tifoso che contesta a Dimaro di stare zitto, perché comincia a sospettare che i giocatori già acquistati – fino a quel momento Olivera e Kvaratskhelia – e quelli in dirittura d’arrivo – Kim e Raspadori – avrebbero alzato la qualità della rosa. Spalletti che alla festa dello scudetto dice a Ciro Ferrara, a Dazn: «Venivo a Napoli dopo Sarri, dopo Ancelotti, per fare cosa? Per vincere lo scudetto, sennò mi saltavano tutti addosso». Spalletti che la sera rimane da solo al centro d’allenamento per studiare gli avversari. Perché è con i dettagli che si vince.
Insomma Spalletti ci ha mostrato cosa deve fare un allenatore per avere successo a Napoli: condurre una vita monastica finalizzata a inculcare l’obiettivo del risultato, che altrimenti finisce per perdersi tra vanità e scoramento. È successo anche altre volte nella storia azzurra, con Ottavio Bianchi e Maurizio Sarri, ad esempio. Allenatori che, con profili ed esiti diversi, hanno colmato le lacune culturali – stiamo parlando di cultura sportiva, o, meglio, cultura della vittoria – con la rigidità delle loro idee di gestione dello spogliatoio e del campo. Anche nei confronti di De Laurentiis, come sempre nel film dello scudetto fa Spalletti quando rivela che il presidente lo ha chiamato prima di Verona-Napoli.
Un allenatore, in questa città, non è solo un allenatore. Come ha detto anche Mourinho dopo l’esonero a Roma, c’è anche lavoro da fare fuori dal campo.
Per questo non c’è altra strada, direbbe il buon Luciano. De Laurentiis faccia presto: l’unico uomo ossessionato dalla vittoria a cui può arrivare è Antonio Conte, in città detestato per anni per la sua juventinità ma allenatore vincente. L’unico che darebbe organizzazione, fame, e soprattutto voglia di vincere a un gruppo che ormai è da rifondare. Senza guida si può dire che si siano demotivati. Non tutti gli atleti hanno un certo tipo di testa. Come ha detto Leao di recente, la differenza tra giocatori forti e campioni come Cristiano Ronaldo o Ibrahimovic la fa la mentalità, non il talento.
Perciò è Conte l’uomo della rinascita del Napoli. Gli altri allenatori accostati sono bravi, alcuni di loro si adatterebbero persino meglio alla rosa attuale, come Italiano o Pioli. Sono tecnici in rampa di lancio, moderni, qualcuno ha anche vinto.
Ma nessuno ha la fame di Conte, reduce anche da un’esperienza negativa al Tottenham. Nessuno può prendere il Napoli e rivoltarlo come un calzino. Un anno fa De Laurentiis avrebbe dovuto cambiare poco: conservare i migliori giocatori e prendere un allenatore nel solco di Spalletti. Non lo ha fatto, e ora c’è da rimediare. Il nome che offre il mercato è uno solo.
Al sistema di gioco, agli acquisti, persino al carattere spigoloso del tecnico salentino ci penseremo col tempo.