Dal Corrmezz: un rapporto che non poteva funzionare, soprattutto per motivi extracalcistici. Serve “Tristi tropici” per scegliere il nuovo allenatore
Ancelotti era antropologicamente estraneo a Napoli e a De Laurentiis
(tratto dal Corriere del Mezzogiormo)
«Aurelio, sei sicuro?». Era il 10 dicembre 2019, il Napoli si era appena qualificato per gli ottavi di Champions. Al ristorante dell’Hotel Vesuvio c’erano Carlo Ancelotti e il presidente del Napoli che gli stava comunicando l’esonero.
C’era stato l’ammutinamento. Soprattutto, erano venuti al pettine tutti i nodi che il tecnico gli aveva prospettato. Lo spogliatoio era fortemente sarrita e i leader si sentivano intoccabili. Ancelotti, che tutto è tranne che un lamentoso, aveva trovato la soluzione: Zlatan Ibrahimovic. L’accordo era fatto, nelle conference call con Zlatan e Mino Raiola, De Laurentiis sembrava molto contento. Ma poi non se la sentì. Meglio tenersi Insigne e Mertens che Ancelotti e Ibra. In qualche modo sapeva gestirli, nuotava nella sua acqua. Il presidente del Napoli è il miglior pilota al mondo di auto di media cilindrata. Quando il rombo del motore cresce, i timori prendono il sopravvento. E lui ne è consapevole. Due anni dopo, ingoiato l’amaro calice Gattuso, si ricordò delle parole del signor Carlo e diede il via al repulisti che ci fece vincere lo scudetto.
Ancelotti e Napoli che ormai si è rifugiata nel luogo comune
Questo è il Bignami calcistico dell’esperienza di Ancelotti a Napoli che pure arrivò secondo il primo anno, in Europa sconfisse due volte il Liverpool e andò vicinissimo a battere a casa sua il Psg di Neymar, Mbappé, Cavani e Di Maria. Ma è molto più interessante l’aspetto antropologico dell’incontro tra un grandissimo del football e una città che soprattutto negli ultimi trent’anni ha cambiato pelle e ha assunto terribilmente le sembianze del luogo comune che un tempo rifuggivamo. Si era usciti dal triennio di Sarri uomo con cui c’era stata una viscerale identificazione. «Lui è come noi. Nessuno si era accorto di quanto fosse bravo così come nessuno si è accorto di quanto sia straordinaria Napoli». Seguirono il sarrismo, il palazzo, il calcio estetico e ovviamente lo scudetto perso in albergo, la congiura dei poteri forti. E bla bla bla.
Molto più complessa l’operazione di riconoscersi in un uomo che aveva vinto tutto, che ha sempre vissuto nell’aristocrazia del calcio. Dimenticando peraltro le radici contadine di Ancelotti che sono fondamentali per comprendere l’intelligenza e la capacità di adattamento di un uomo che al Real Madrid si muove come se stesse a casa sua. I brutti, sporchi e nemmeno cattivi lo accolsero al grido di “bollito”, “pensionato”. Se uno come Ancelotti decide di allenare il Napoli – pensavano – deve esserci l’inganno. Il che la dice lunga sull’incapacità di considerarsi un luogo realmente appetibile. Particolarmente interessante il rapporto della piazza col figlio Davide assistente in panchina del papà. Elogiatissimo a Madrid, considerato uno dei segreti dei successi del Real, qui aveva le stimmate del raccomandato, essendo Napoli un luogo che notoriamente ha bandito il nepotismo. «È venuto a sistemare il figlio». Le signore della città bene sintetizzavano: «Si è portato anche il figlio? Ora abbiamo capito, si è sistemato quattro uova in un piatto» (lo dicevano in napoletano). Al Corriere della Sera il povero Davide dichiarò: «Lavoro da dieci anni con mio padre e il tema del nepotismo salta fuori quando si perde. Il posto dove me l’hanno fatto pesare di più è stato a Napoli».
A Napoli l’allenatore dev’essere scelto anche in base a criteri antropologici
Ovviamente c’era anche chi Ancelotti lo stimava. La sera dell’ultima partita, quando era chiaro a tutti che sarebbe stato esonerato, un lungo, lunghissimo applauso, accompagnò la sua uscita dal campo. Così come non va dimenticato il ruolo di Cavallo di Troia che ebbe Giuntoli nell’ammutinamento e nei contatti con Gattuso che da settimane procedevano sotto traccia. Particolarmente interessante la frase che De Laurentiis rilasciò al Corriere dello Sport. Disse che avrebbe dovuto esonerarlo al termine del primo anno (un classico, come abbiamo visto anche con Garcia): «Avrei dovuto dirgli: “Carlo, per me non sei fatto per il tipo di calcio che vogliono a Napoli, conserviamo la grande amicizia, il calcio a Napoli è un’altra cosa”».
Il calcio a Napoli è un’altra cosa. Siamo all’antropologia applicata al pallone. Un «Tristi tropici» de noantri. Ma che indirizzerà la scelta del nuovo tecnico. Non sarà solo una questione tecnica o tattica. Bisognerà valutare il grado di aderenza alla Napoli dei giorni nostri. Gasperini, ad esempio, è antropologicamente distante. È detestato quasi all’unanimità, lui piemontese in purezza. Lo stesso Conte che però potrebbe annacquare la sua esibita juventinità con la figura retorica di uomo del Sud. Pioli rischia di essere giudicato freddino. Ci fa tornare in mente Ferlaino che scartò Gigi Cagni dopo averlo portato a cena: «Uno che ordina il brodino, non può fare l’allenatore del Napoli». Italiano apparentemente non presenta obiezioni, peraltro gioca anche il calcio apprezzato da queste parti. Non dimentichiamo che Spalletti arrivò a Napoli nell’indifferenza generale e che dopo un anno volevano mandarlo a casa restituendogli la Panda. Prima che la reciproca melassa di ipocrita retorica (del signor Luciano e dei tifosi) ricoprisse il tutto. Alla fine, bisogna ammettere che quella cena al Vesuvio fu la fortuna di Ancelotti.