Inter, Juve e Milan grandi soprattutto per i debiti. La narrazione è obsoleta, la mappa dei ricchi del calcio italiano sta cambiando
Bologna, Atalanta e le altre: la rivoluzione è sotto i nostri occhi, manca solo il sangue
Non è ancora una rivoluzione, perché manca il sangue. E senza spargimento di sangue i vecchi sistemi non si abbattono. È la lectio della storia che vale anche per il pallone. Che poi sono storie di calcio fino a un certo punto. Sono storie di soldi. Di finanza. Di debiti. Di imprenditori che non riescono a pagare e lasciano il club sul tavolo. Come accade a tanti nella vita ordinaria. Sta accadendo a Zhang la cui narrazione è meno cruenta solo perché avvolta del morbidume della stampa italiana ossia l’elemento che meglio incarna l’aforisma di Flaiano: “gli italiani sono sempre pronti a correre in soccorso del vincitore”.
Solo che stavolta le coordinate stanno cambiando davanti ai nostri occhi e facciamo finta di non accorgercene. La mappa dei vincitori è in via di trasformazione e il sistema mediatico fa fatica a metabolizzare la novità. Il sistema calcio in Italia è incardinato su tre squadre. Innanzitutto la Juventus. Poi il Milan e l’Inter. È una dittatura accettata da tutti. Nel 2023 il Napoli ha interrotto una striscia di campionati vinti che durava da circa vent’anni. Dalla Roma al Napoli solo le tre strisciate si sono aggiudicate lo scudetto. E seguendo lo schema di Flaiano, tutto viene a cascata: gli arbitri, i giornalisti, i tifosi, gli spazi televisivi. Persino la giustizia sportiva. Tutto è segmentato in relazione al manuale Cencelli del campionato. Più vinci, più trattamenti di favore avrai. In ogni settore.
Bologna, Atalanta e una narrazione old style
Il sistema calcio si indigna quando il governo vuole istituire un’authority di controllo sui conti dei club. Possibile che nessuno tra i dirigenti del calcio italiano si fosse accorto di quel che stava accadendo all’Inter? E su. È tutto talmente evidente da risultare grottesco ancor prima che nauseante.
Ma continuando solo a guardare le big three rischiamo di non accorgerci di quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi. L’anno prossimo in Champions l’Italia avrà cinque squadre (forse sei, nel caso grazie all’Atalanta). Di queste cinque, due sono Bologna e Atalanta. E l’Atalanta di Percassi sarà alla quarta Champions in sei anni. Più del Milan.
La narrazione è ancora old style. Si dà per scontato che un allenatore come Thiago Motta lasci il Bologna per fare il salto di qualità e andare alla Juventus. È considerata un fastidioso dettaglio la differenza di solidità economico-finanziaria tra i due club. Thiago Motta è un tecnico bravissimo, in rampa di lancio (lo cerca anche il Barcellona, e non solo) ma ha potuto contare su una rosa allestita con intelligenza, competenza e giudizio. Il Bologna è un gioiellino. Un club non a caso allestito da un imprenditore vero che forse troppo lentamente sta trasmettendo anche al settore calcistico il dna imprenditoriale della galassia Saputo.
Saputo e Percassi, imprenditori veri e ricchi
Le storie di Atalanta e Bologna sono molto simili. Solo in Italia è possibile definire miracoli o piccole realtà le promanazioni calcistiche di due signori dell’imprenditoria quali Percassi e Saputo. Che tra l’altro sono imprenditori veri. E la differenza tra chi sa fare impresa e chi si improvvisa, sta cominciando ad apparire evidente.
Invece l’Inter, che è sommersa dai debiti e ha un presidente che non può lasciare la Cina perché non ha estinto i debiti nemmeno a casa propria, viene narrata come un colosso. Lo stesso vale per la Juventus dove un anno sì e un anno quasi John Elkann è costretto a rimpinguare le casse della società che altrimenti dichiarerebbe bancarotta. E ha scelto Giuntoli, preferendolo financo ad Allegri, non certo per assonanza di stile ma perché dal buon Cristiano pretende i Kim e i Kvara a prezzi stracciati. Come avrebbe detto D’Alema: “a Giuntoli, facce Tarzan”. Lo stesso discorso è valido per il Milan le cui vicende societarie sono immerse in parte nel mistero e in parte nelle aule di tribunale.
La domanda è: siamo sicuri che oggi un allenatore o un calciatore preferisca con tanta leggerezza Juventus, Inter e Milan a Bologna e Atalanta? Non ne siamo così sicuri. La settimana scorsa si è giocata la finale di Coppa Italia tra Juventus e Atalanta e francamente era arduo sostenere che la mediana con Nicolussi Caviglia (un nome da costituzionalista) e Cambiaso fosse più attrezzata di quella con Koopmeiners e Ederson. Non c’era Scamacca e Gasperini ha schierato Lookman partner d’attacco di Osimhen nella Nigeria, non proprio l’ultimo arrivato. Gasperini è bravissimo ma l’Atalanta è una squadra, ha i calciatori. Ha uno scouting di prim’ordine. Ha organizzazione. E ha soldi. E ne sta spendendo sempre di più, nonostante l’attenzione a non fare il passo più lungo della gamba.
Il punto vero è quello che abbiamo affrontato all’inizio. Le nuove realtà del calcio italiano non ne vogliono sapere di abbandonare il low profile. Pensano che a loro non convenga. Sono interessate più al conto economico che al potere. È questo che manca. Manca la detronizzazione. Il bagno di sangue. L’attacco sul piano del potere che poi vuol dire opinionisti compiacenti, abritraggi distratti al momento giusto, un tessuto di relazioni che sottraggono tempo e energie. L’Italia non è l’America. Nemmeno nella narrazione ipocrita siamo il Paese delle opportunità. Anzi. Siamo il Paese delle aderenze, dei contatti, delle conoscenze, dei link, dei nocciolini duri, dei patti di sindacato. Da noi nessuno crede che la legge sia uguale per tutti.
Dal punto di vista dei soldi, della grana, nel calcio italiano sta avvenendo una mutazione profonda e mai vista. A Bologna e Atalanta va affiancata la Fiorentina di Commisso che tra dieci giorni potrebbe vincere il suo primo trofeo. Sono Fiorentina e Atalanta a giocarsi le finali europee, non Milan, Inter o Juve. C’è ovviamente il Napoli che con un imprenditore relativamente povero (De Laurentiis certamente lo è rispetto a Saputo e Percassi, e allo stesso Commisso) ha vinto il campionato e da oltre dieci anni è ai vertici del calcio italiano. Persino Lotito va annoverato, anche se lui gioca molto di più sul versante del potere e della politica. Ai nuovi manca un’alleanza, un collante per sovvertire l’establishment. Ma quel che non sta avvenendo nel Palazzo, è invece ben evidente in campo e nei bilanci. Solo noi media facciamo finta di non accorgercene e continuiamo con la boiata della favola e dei miracoli di provincia.