Il libro di Antonello Sette con ventidue interviste per il Foglio a protagonisti di un calcio che era molto diverso da quello di oggi
C’era una volta il calcio: io e mio padre ci abbracciavamo come raramente nella vita
Quando ho visto la prima partita allo stadio non era domenica. Correva l’anno 1956 e giovedì 10 maggio mio padre mi portò a vedere Lazio-Juventus. Finì 2 a 0 per la Lazio. Reti di Ernes Muccinelli e di Arne Selmosson. Ero un bambino stupito, incredulo e alla fine, visto il risultato, felice come un cavaliere in erba sì, ma vincitore. Io e mio padre allo stadio. Una complicità che non mi ha mai abbandonato. Neppure da quando, e sono passati quasi quaranta anni, mi ha lasciato a guardare le partite da solo. Allo stadio, miracolo di ogni gol, ci abbracciavamo, come nella vita di fuori non accadeva mai. Eravamo finalmente due bambini che si volevano bene e non avevano paura di dimostrarselo. Lo stadio Olimpico è rimasto per altri trent’anni senza copertura, con la collina di Monte Mario sopra le nostre teste. Ricordo, come se fosse ieri, settantamila ombrelli aperti per ripararsi dalla pioggia e mio padre che regolarmente si lamentava con quelli della fila superiore perché erano, a suo giudizio, mal posizionati e facevano colare un rivolo d’acqua, che impietosamente si infiltrava direttamente dentro le nostre schiene. Nella mia prima Lazio il terzino destro, classe di ferro 1933, si chiamava Nicola Lo Buono. Era un mio non troppo lontano parente e, grazie alla sua raccomandazione, potevo vedere gli allenamenti, anziché dalla tribunetta di legno, come tutti gli altri, dal pullman societario, situato, non saprei dirvi perché, dietro una delle due porte del campo di allenamento di Tor di Quinto.
Il calcio è sempre stato, e rimarrà, il bambino che non ne vuole sapere di diventare grande. E anche oggi, quando sono dentro uno stadio, mi sembrano tutti bambini, anche quelli che in testa non hanno più un ciuffo biondo, ma solo radi capelli grigi.
Il calcio è cambiato. Forse non in meglio. Ricordo di aver scritto di un Roma-Napoli degli anni ’50, che era la partita dell’esodo di massa di cinquantamila tifosi partenopei, dove nelle note in calce al tabellino, c’erano puntigliosamente elencati i presenti più illustri, come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giulio Andreotti e i reperti sequestrati dalla polizia. Cito a memoria: due tric e trac, un somaro vivo e una cassa da morto avvolta nella bandiera della Roma. A quella partita era dedicata una trasmissione radiofonica, che andava in onda tutte le settimane. Si chiamava “La domenica della buona gente”. E ricordo tanti derby visti in Curva Sud, che era quella che incontravo per prima venendo da casa mia, con io che restavo seduto, mentre intorno a me, laziale dal 10 maggio 1956, si alzavano in piedi e scalpitavano i tifosi della Roma quando la loro squadra faceva gol.
Non c’erano le coreografie contrapposte, ma solo il colore delle bandiere. Il calcio era la celebrazione della gioia e della sofferenza, il tempio della moderna sfida fra guelfi e ghibellini, fra repubbliche e granducati, in una cornice ovale, surreale, come quella di una fiaba. Gran parte di tutto questo si è perso per strada. Allo stadio non piove. Le curve non sono mischiate, ma schierate, come quando ci si prepara a una battaglia. Un tempo c’erano gli sfottò. Oggi ci sono i buu. Nel 1962 poteva capitare che un calciatore, che di nome faceva Gianni Seghedoni, segnasse al Napoli, in uno stadio Flaminio gremito di quarantamila ombrelli, il gol che avrebbe portato la Lazio in serie A, ma per sua disgrazia quel pallone uscì da un buco della rete. L’arbitro non tenne minimamente in considerazione la sua disperazione, fatta immediatamente propria da tutti gli spettatori bagnati di fede biancocelestiale. A giudizio dell’arbitro e del guardalinee, mancava la prova certa che quel pallone fosse entrato. Per somma sfortuna, sua, di Seghedoni e dei tifosi della Lazio, aveva al polso un orologio che non si accendeva ogni volta che il pallone varcava la linea bianca, ma a malapena segnalava il trascorrere del tempo.
Oggi è l’epoca del Var, della moviola, delle sentenze a caldo e di quelle a freddo, del calcio che corre dietro il filo del futuro, sperando che non venga mai il tempo degli automi dell’intelligenza artificiale, con, o senza, gli scarpini ai piedi. I bambini non hanno più solo un pallone, magari bucato o di pezza, per inseguire i loro sogni. Ricordo una partitella, vissuta in prima persona al Foro Italico, nel pantano che era diventato il campo senza erba, situato là dove oggi è l’Ostello della Gioventù, protrattasi sino all’avvento del buio, perché nessuno voleva perdere e da otto contro otto si finiva a giocare in sei, compresi i portieri volanti, con due sassi appuntiti a svolgere sommariamente la funzione dei pali e con le traverse immaginarie, che si alzavano e si abbassavano, a seconda delle contrapposte necessità. Il giorno dopo avremmo saputo che il Tevere, che scorreva a pochi metri di distanza da noi, era stato sul punto epocale di esondare. Oggi si vive, si vince e si perde non solo senza bagnarsi, ma anche senza muoversi di casa. Oggi il potere è stato conquistato dalle televisioni, dai social e dai videogiochi. Eppure quella magia, che fa del calcio lo sport e, soprattutto, il gioco più bello del mondo, non potrà mai dissolversi nel nulla. Finché ci sarà un pallone che rotola vicino a dove stiamo camminando, ci verrà voglia di corrergli dietro e di dargli un calcio, indipendentemente dall’età e dalla forma fisica. Il calcio non morirà mai. Il calcio non è solo il passato, ma anche il nostro futuro. È un meraviglioso giocattolo che appartiene a tutti. Ai bambini che siamo stati, ai bambini che sono e a quelli che saranno. Questo libro, che raccoglie venticinque interviste scritte per Il Foglio con la passione e l’incanto di quella mia prima volta allo stadio, raccoglie la speranza e il monito che tutti i protagonisti delle storie, di vita prima che di calcio, che vi sono raccontate, ripetono, ciascuno con la propria voce, come se fosse un coro. I bambini continuino a correre su un prato dietro a un pallone. I grandi continuino a restare bambini. Nel segno e nel sogno di una cosa, che si chiama pallone.
“C’era una volta il calcio” di Antonello Sette, Palombi Editore, pagine 160, euro 14
Tra le ventidue interviste ci sono anche quelle ai “napoletani” Bruno Giordano e Giovanni Galli.