Il calcio è cambiato, ma più fuori dal campo che dentro. E l’etichetta e il passato di antiaziendalista non gli giovano. Oggi il tecnico è una sorta di Ad
Conte piace più ai tifosi che ai presidenti
È vero, il calcio è cambiato e sta cambiando. Ma non è quel che pensano gli appassionati di costruzioni dal basso, di expected goals e altre amenità. La grande rivoluzione del football è avvenuta più fuori dal campo che in campo. Sul terreno di gioco bene o male resiste ancora il principio statistico fondamentale, ossia i gol fatti e quelli subiti. Fuori dal terreno di , invece, dietro le scrivanie, nei consigli d’amministrazione dei club, il concetto di vittoria è molto più sfumato. Può essere declinato in tanti modi. Vittoria è anche e soprattutto avere il bilancio in attivo. Concetto che fa rabbrividire i tifosi. Ma ai tifosi piace vivere nell’iperuranio. Amano essere obsoleti. Espongono con orgoglio il loro essere anacronistici. Portano in scena valori come l’attaccamento alla maglia che possiamo considerare la cabina telefonica del pallone. Archeologia.
Prendiamo un club come il Manchester United: non vince nulla da anni (mi raccomando, in pubblico non dite che l’ultimo successo europeo è targato Mourinho) eppure il suo fatturato è sempre tra i più alti del mondo. O il Sassuolo che adesso rischia seriamente di retrocedere ma è un’azienda sanissima, con i conti ampiamente in regola.
Il presidente che si indebita è sparito da un po’
Oggi, anno 2024, è anacronistico (per non dire da dissociati) continuare a ragionare come se fossimo negli anni Ottanta. Il calcio è un’industria. I club sono aziende. Aziende sui generis perché nove volte su dieci sono guidate da manager inventati che non hanno alcun titolo di studio in economia. Ma sempre aziende sono. È sparita da tempo la figura dell’imprenditore che si indebita pur di vedere i propri tifosi felici. Forse l’ultimo è stato Franco Sensi. È talmente cambiato il panorama che oggi i tifosi (quelli che hanno scelto di non vivere come in Goodbye Lenin) in automatico ragionano in termini di plusvalenze, di bilancio.
In questa cornice gli allenatori non possono più essere considerati esclusivamente signori col fischietto in bocca che gridano, dirigono gli allenamenti, parlano di calcio e basta. Gli allenatori, in questo nuovo football, sono figure paragonabili agli amministratori delegati. Attraverso il proprio lavoro devono creare valore. Devono far aumentare le quotazioni dei calciatori. Devono essere (tifosi obsoleti chiudete gli occhi e tappatevi le orecchie) aziendalisti. Che è un compito esattamente opposto a quello di scegliere i calciatori più forti e dire: “voglio quello, anzi no quell’altro. Fate un bonifico e via”. Ormai così non può più ragionare quasi nessuno. Persino al Barcellona fanno i conti della serva. E volendo anche il Real Madrid – che pure ha speso cento milioni per Bellingham – deve razionalizzare i colpi.
Conte si è disegnato così per anni
In un simile scenario la figura di Antonio Conte non vorremmo dire che è fuori contesto. Ma quasi. Magari soffre della sindrome di Jessica Rabbit (“non è colpa mia, mi disegnano così”). Ma con lui funziona poco. Perché è stato soprattutto lui, nel corso degli anni, a disegnarsi così. Antonio Conte è un allenatore che spesso è entrato in rotta di collisione con i propri club. A partire dalla Juventus di Agnelli da cui andò via sbattendo la porta dopo aver detto che con dieci euro non si mangia in un ristorante da cento euro. Modo carino per dire che se non spendi, in Champions non vai avanti. Poi arrivò Allegri e di finali Champions ne giocò due. Anche con l’Inter – che gli comprò questo mondo e quell’altro – Conte ha più volte litigato pubblicamente, davanti ai microfoni. E anche da lì è andato via appena si sono palesate le prime difficoltà economiche. Ha funzionato – nel breve – col Chelsea che era ancora di Abramovich. Meno al Tottenham.
Conte è un tecnico che piace molto ai tifosi proprio per questo. Perché è garanzia di successo. La sua presenza garantisce ai tifosi il massimo impegno per far arrivare calciatori costosi e spesso anche forti. Oggi questa è un’immagine che ha una connotazione fortemente negativa. Non a caso negli ultimi giorni sulla stampa italiana abbiamo letto retroscena (probabilmente di giornalisti che con lui hanno un rapporto) sul suo presunto cambiamento. Frasi del tipo «voglio emozionarmi», oppure “non chiede più calciatori costosi né pretende per sé stipendi esosi”. Evidentemente Conte ha capito che è preceduto da una fama che non lo favorisce con i presidenti o con i consigli d’amministrazione. Una fama da “prima repubblica” del calcio. Creare un buco da 200 milioni e vincere, equivale a una vittoria per i tifosi non certo per i proprietari dei club.
All’ex ct della Nazionale non resta che sperare in una panchina di prestigio (ma anche tra i top club l’andazzo è mutato). Oppure, se vorrà rientrare nel giro anche con un club di seconda fascia, dovrà superare l’esame di aggiornamento di economia calcistica. “Ci dica signor Conte, che cos’è una plusvalenza?”