Adl vuole un uomo di carattere un condottiero. Un leader in grado di allenare le menti e i corpi, l’anima e la tattica.
Gasperini è in cima all’elenco dei preferiti di De Laurentiis. Lo scrive il Corriere dello Sport con Fabio Mandarini.
Gasperini è in cima all’elenco dei preferiti. E mica per caso: Adl vuole un uomo di carattere, un allenatore con i gradi, un po’ generale e un po’ comandante, comunque un condottiero. Un leader in grado di allenare le menti e i corpi, l’anima e la tattica. La tecnica e il cuore: non ne può più di quello che continua a vedere in campo e fuori, della confusione e dello smarrimento di un gruppo che dodici mesi fa strapazzava chiunque e che ora si fa ribaltare in 12 minuti. Ha sbagliato, ha capito: all’alba della stagione con lo scudetto sulle maglie, la cosiddetta “New 3ra” da slogan francamente molto bello ma rimasto sospeso, aveva immaginato di poter fare a meno a cuor leggero di Spalletti e Giuntoli, allenatore e ds del capolavoro, e soprattutto di poterli sostituire facilmente.
L’Atalanta di Gasperini e Percassi non è una favola (Napolista)
La favola… non c’è un lieto fine alternativo per l’Atalanta. Sempre la favola. O la “Storia”, esse maiuscole a piacimento. “Opus Dea”, titola il Corriere dello Sport con enfasi giustificata dalla prima finale europea della squadra più fiabesca del calcio italiano dal tempo dei mussi volanti del Chievo in Champions League. Il racconto del prima e del dopo – ma anche del durante – di Atalanta-Marsiglia andata e ritorno è, in purezza, l’Italia parolaia, cialtrona, ampollosa ed enfatica. Gasperini è a fasi alterne eroe o villain. Ora siamo in piena fase fratello d’Italia, in luna di miele finché sconfitta non ci separi.
Perché il calcio italiano sa usare i suoi asset, almeno nella narrazione che gli serve a galleggiare nella dimensione internazionale. E cosa c’è di meglio della premiata ditta Gasperini-Percassi per riscoprirci solidali, tutti, alla patria che vince. C’è stato un tempo però in cui l’Atalanta che correva più di tutti era “dopata”. Chissà con cosa li nutrivano, si sospettava nei bar. E così Gasperini era un giorno antipatico, l’altro razzista come il suo dirigente beccato ad urlare fuori ad un aeroporto “terrone di merda” ad un tifoso del Napoli. Quando nel 2020 l’Atalanta perse ai quarti di Champions col Psg – con due gol oltre il novantesimo – i social furono sommersi di “I bergamaschi devono morire!”, scritto in caps-lock, buttato lì senza pensare che nei mesi della pandemia, in cui ci dicevamo tutti più buoni, i bergamaschi s’erano portati avanti, ecco.
La retorica procede per aggiornamento costante, e guarda quant’è bella oggi Bergamo. Fuori la Roma – con tutto il suo portato esistenziale, l’impresa in Germania, la resistenza ai tedeschi, quasi un Piave moderno – scaliamo e ci adeguiamo: siamo tutti un po’ Atalanta oggi. Giovani, smart, freschi, coi conti a posto, vincenti.
E’ un’impalcatura di cuoricini funzionale al perpetuarsi della stessa storia. Gasperini è il tecnico italiano più celebrato d’Europa (al netto dell’altro, Carletto, che fa però proprio un altro sport) che l’Italia riconosce una volta l’anno, quando fa il miracolo. Lo fa quasi ogni anno, è diventato un rito. E allora s’illumina, e noi con lui, del tradizionale immenso. Lo piazzano su tutte le panchine “importanti”, e poi alla fine resta con Percassi. Un giro perpetuo di giostra, con le paillettes ormai consunte. Vende comunque le poche copie che ancora qualcuno compra. Lo storytelling punta sull’Italia che s’è desta, di nuovo, nell’unità nazionale. La temperatura reale dell’emotività è scritta sui social.
L’Atalanta non vende sogni, ma solide realtà, come in un vecchio spot. Però che schifo di favola sarebbe, che noia. Vuoi mettere la sorpresa, lo sconcerto, di riscoprirla ogni anno? Come in “50 volte il primo bacio”, tipo.