Dal Riformista. La sollevazione contro l’authority governativa risponde solo all’esigenza di continuare a fare a piacimento, con club carichi di debiti
Il calcio italiano è un’industria senza management, nessun governo potrebbe fare peggio
Giù le mani dal calcio italiano. È la litania che ci tocca ascoltare da qualche giorno. Ossia da quando la bozza della riforma della Covisoc è finita in mano alla stampa. Dal governo era stata girata in via informale al presidente della Federcalcio Gravina e poi è magicamente divenuta pubblica. Di che si tratta, più o meno lo sappiamo. È la creazione di un’authority di controlli sui conti dei club di calcio e di basket. Authority di nomina governativa. Potere sottratto alla Covisoc che invece era ed è di nomina della Federcalcio.
È successo il finimondo. Il presidente del Coni Malagò è insorto. Ha parlato di mancato rispetto della forma. Ha previsto una figuraccia internazionale certo che Fifa e Uefa insorgeranno. Gravina non ne parliamo nemmeno. I club di Serie A hanno bocciato all’unanimità il nemico authority. E hanno rivendicato, petto in fuori e con tono solenne, l’autonomia dell’ordinamento sportivo dalla politica.
Quale sarebbe la virtuosità del calcio italiano da difendere?
Ndrangheta, direbbe Totò. Ma dove sarebbe questa virtuosità da difendere? Nei giorni scorsi, la Gazzetta ha pubblicato un ritratto impietoso della sedicente “grande industria” calcio italiano. Che è in rosso per 427 milioni. “Solo due squadre non hanno debiti con le banche, Fiorentina e Monza. Tra le grandi, Napoli, Milan e Atalanta sono quelle meno indebitate. Sono le stesse che hanno chiuso in utile gli ultimi bilanci (assieme a Lecce e Sassuolo). Juventus, Roma e Inter perdono 312 milioni in tre”.