Ormai in ogni stadio c’è una contestazione. Milano, Napoli, Roma laziale. Tutti vogliono vincere. La calcistizzazione sta rovinando anche il tennis
Lo sport è infestato dai tifosi della vittoria. La pretendono. Nel calcio e ora anche nel tennis
Milano non si accontenta. Brindisi nemmeno. Teramo non sia mai. Ormai non c’è stadio d’Italia dove non vada in scena una protesta dei tifosi. Oggi è successo a Milano dove la Curva ha contestato la strategia comunicativa del club. Bah. Opzione non nuova. Lo scorso anno anche a Napoli, prima della taumaturgica fotografia ultras De Laurentiis, era tutto un fiorire di accuse nei confronti della strategia comunicativa del club che peraltro stava stravincendo il campionato. Cosa significhi, non lo sappiamo. Ieri la Lazio è stata contestata dopo il pareggio a Monza. Come ormai avviene di consueto, i calciatori si sono dovuti sottoporre al rito dell’interrogazione alla lavagna. Gli scolaretti a testa bassa che ascoltano i capi ultras che fanno loro la ramanzina sui valori (doppio bah), sull’impegno. Eccetera. La mappa delle contestazioni è molto diffusa. Ciascuno si lamenta di qualcosa.
Il caso Milan è particolarmente interessante. La squadra è seconda. Giocherà la prossima Champions. In Champions quest’anno sono stati eliminati all’ultima giornata in un girone di ferro che comprendeva le semifinaliste Psg e Dortmund. Sì, hanno perso con la Roma nei quarti di finale di Europa League. E allora? Curva prima deserta e poi muta. Leao fischiato. Pioli contestato. Follia pura.
I tifosi non sanno che 19 squadre perdono e una vince
Il problema, ancor prima che culturale, è aritmetico. In una competizione in cui partecipano venti squadre, una vince e le altre diciannove perdono. È l’abc della vita. Forse occorre istituire un ministero della sconfitta. Sarebbe il caso di riprendere a spiegare che cos’è lo sport. È solo dimostrazione di ottusità pretendere la vittoria o chissà cosa. Sta diventando una situazione insostenibile, stancante. Vai allo stadio se ti piace il calcio o se tifi per la squadra; o, in alcuni rarissimi casi, per entrambe le opzioni. Non per pretendere la vittoria. Se pretendi la vittoria, o ti metti in proprio, lavori per fondare un club, o giochi in Borsa e dimostri la tua bravura. Oppure non rompi le scatole. Paghi il biglietto e guardi la partita.
È interessante – facendo finta di passare ad altro – la calcistizzazione del tennis che è avvenuta da quando Sinner ha vinto gli Open d’Australia. La dimensione grottesca, invadente, sguaiata, con esibizione compiaciuta di incompetenza e ignoranza. È il biglietto da visita dei nuovi appassionati di tennis. In realtà tifosi della vittoria. Che hanno contagiato anche il circuito comunicativo. Ormai al povero Sinner si chiede solamente quando diventerà numero uno del mondo. Come se fosse un dato acquisito. È lo stesso meccanismo calcistico. Arrivi due volte secondo in campionato? E ora devi vincere sennò ci hai preso in giro. Hai vinto lo Slam in Australia? Mo devi diventare numero uno, sennò non sei nessuno. Non te ne uscire con una semifinale a Wimbledon che ci sciacquiamo l’anguria.
È follia. È follia che non porta da nessuna parte. In realtà è ignoranza. È frustrazione. È il tentativo di coprire le lacune (evidentemente robuste) della propria esistenza riversando ambizioni su Sinner o sulla propria squadra del fegato (suona meglio che del cuore). Urge la creazione di un ministero della sconfitta. Con un’attività frenetica nelle scuole, negli uffici. Ovunque. Sottopancia durante le partite. del tipo: se una squadra vince, l’altra perde. Cose così. E magari un sottosegretario col compito di spiegare che ove mai Sinner non diventasse numero uno del mondo in pochi mesi, non sarebbe questo fallimento. Così come non lo sarebbe nemmeno se non dovesse diventarlo mai.
Di fondo, il tennis dovrebbe seguirlo chi è appassionato di tennis. Dovrebbe valere anche per il calcio. Le bocce. Eccetera. Lo sport non è il risiko. Prima o poi andrà spiegato.