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Pioli è un fondamentalista, altro che normalizzatore. Non cambia mai il suo modo di giocare

De Laurentiis e il Napoli ci riflettano bene, pratica sempre e solo un calcio fisico e dispendioso. Con Kessié e Tonali, vince. Senza, va a sbattere

Pioli è un fondamentalista, altro che normalizzatore. Non cambia mai il suo modo di giocare
Db Milano 32/01/2022 - campionato di calcio serie A / Milan-Juventus / foto Daniele Buffa/Image Sport nella foto: Stefano Pioli

Il normalizzatore

Stefano Pioli è un uomo che si esprime in modo bonario, pacato, sereno. Ed è spesso sorridente, anche quando i giornalisti lo incalzano con domande velenose. Per questo ha un’etichetta appiccicata addosso: quella del normalizzatore, ovvero dell’allenatore che arriva in una squadra e in qualche modo la tranquillizza, la rimette in ordine. Ecco, questa è una suggestione che non rispecchia per niente la realtà del campo e della tattica: Stefano Pioli è infatti un tecnico radicale, ha un’idea di gioco chiara e immediatamente riconoscibile. E che, soprattutto, non ha nulla a che fare con la normalizzazione: in ogni sua avventura, l’attuale allenatore del Milan ha sempre predicato e praticato un calcio di velocità esasperata, di grande dispendio fisico, di pressing intenso, di ripartenze in campo lungo.

Le narrazioni tipiche del giornalismo sportivo, soprattutto quello italiano, ci portano a credere/pensare che gli allenatori-ideologi siano solo quelli innamorati del possesso palla intensivo, del gioco di posizione, della costruzione dal basso. C’è un po’ di verità in questa lettura delle cose, cioè è accertato che la maggior parte degli allenatori-ideologi ami proprio quel tipo di calcio. Ma esistono anche dei prototipi diversi, degli ideologi legati ad altri concetti. Ecco, Pioli appartiene a questa categoria, nel senso che ha sempre amato – e quindi non ha mai abbandonato – certe convinzioni, neanche quando si è scontrato con l’oggettiva impossibilità di proseguire sulla stessa strada. La sua strada. E l’esperienza col Milan, in questo senso, è profondamente esplicativa.

Pioli allenatore-costruttore (e vincente)

È arrivato il momento di parlare del Milan di Pioli. E lo diciamo subito: si tratta di un progetto che Pioli ha costruito nel modo giusto, soprattutto se pensiamo che tutto è nato sulle macerie della Banter Era rossonera. Sembra una vita fa, è una vita fa: nell’autunno 2019 Pioli subentra a Giampaolo e inizialmente sembra l’ennesimo allenatore risucchiato in un tritacarne di talento e di ambizioni. Pochi giorni prima di Natale, lo 0-5 subito a Bergamo è uno dei punti più bassi dell’intera storia del Milan.

Poi, però, qualcosa cambia: dal mercato invernale arrivano Ibrahimovic, Kjaer e Saelemaekers, il 4-2-3-1 di Pioli comincia a girare e lo stop per il Covid contribuisce a cementare un po’ i concetti. Dalla ripartenza di giugno fino ad agosto, il Milan è di gran lunga la miglior squadra della Serie A: non perde mai, travolge la Roma, la Lazio e la Juventus di Sarri, si prende il sesto posto e impressiona per dinamismo e forza pura.

È una questione tattica, chiaramente, ma è soprattutto una questione di caratteristiche dei calciatori: Theo Hernández, Kessié e Leão sono tre freak atletici nel contesto della Serie A, nel senso che risultano dominanti contro la stragrande maggioranza dei loro avversari, e lo stesso discorso vale anche per gli strappi di Rebic e per la prestanza di Kjaer. Sulla fisicità di Ibrahimovic non c’è molto da aggiungere. Bennacer, Calhanoglu, Bonaventura e ovviamente lo stesso Ibra ci mettono anche un po’ di qualità, ma sempre correndo ad alto ritmo.

La seconda parte del video, ovviamente, è quella più interessante

Maldini, Massara e Moncada si rendono conto di avere dei margini per lavorare bene, che Pioli può costruire qualcosa di importante su queste fondamenta. Volevano Rangnick, anzi il suo arrivo a Milano era cosa già fatta. Però poi confermano Pioli e assecondano le sue richieste sul mercato: il Milan 20/21 viene arricchito con Tonali, Brahim Díaz e infine con Tomori, tutti calciatori dalle doti fisiche sopra la media della Serie A. È così che nascono e si materializzano la qualificazione in Champions del 2021, la prima per il Milan dopo otto anni, e poi anche lo scudetto del 2022. Scudetto su cui, ovviamente, pesano tantissimo gli acquisti di Maignan (al posto di Donnarumma) e di Giroud – oltre che il suicidio sportivo dell’Inter di Inzaghi.

È chiaro che il lavoro di Pioli non possa essere spiegato e quindi ridotto in queste poche righe. Ma, allo stesso tempo, è evidente che il Milan 2020 –> 2022 sia una squadra con un’identità ben definita. Incorruttibile, viene da dire. E infatti arriva al livello più alto, nonché a valorizzare i suoi talenti, quando incastra i tasselli giusti al posto giusto: Tonali come interno di un centrocampo a due. Kessié come trequartista-ombra. Leão e Theo come frecce da armare in campo aperto. Calabria come regista aggiunto che si accentra per impostare. Giroud come pivot offensivo che aiuta la squadra nella risalita del campo. Tutte idee interessanti, anche innovative se vogliamo, che però nascono da una perfetta aderenza tra i principi dell’allenatore e le qualità dei giocatori.

Lo scudetto

Il Piolismo come fossilizzazione

A quel punto nasce il cosiddetto Piolismo. Che, come tutti gli -ismi calcistici e non, finirà per diventare stagnante. Per impantanarsi su se stesso. Il Milan con lo scudetto sul petto, e con De Ketelaere al posto di Kessié, è una squadra che si esprime bene fino a un certo punto. Che a ottobre-novembre 2022 si ammala di prevedibilità, che non riesce ad andare oltre gli spartiti dell’anno precedente. In poche parole: Pioli fa fatica a capire il trequartista belga, e così lo emargina e poi lo taglia fuori dal suo progetto. Allo stesso modo, anche tutti gli altri acquisti dell’estate 2022 (Dest, Thiaw, Adli, Vranckx e Origi) trovano poco spazio. Il vuoto lasciato da Kessié non viene riempito, poi la situazione precipita tra gennaio e febbraio: gli infortuni e i buchi in difesa portano il Milan a perdere contro chiunque.

Ecco, questo è il momento/concetto centrale di questa analisi. E su cui il Napoli e De Laurentiis, in qualche modo, farebbero bene a riflettere, prima di affidarsi a Pioli. L’allenatore del Milan, negli ultimi due anni, ha dimostrato di avere scarsa elasticità. Sì, nella primavera di un anno il Milan passò alla difesa a tre e così Pioli si salvò dall’esonero. Ma i principi di gioco dei rossoneri rimasero identici. Una volta terminata l’emergenza-infortuni, dopo la sosta di marzo, il Milan affrontò tre volte il Napoli con la difesa a quattro e con Leão in gran forma. Tanto bastò, per battere un Napoli spuntato e vittima di un evidente calo. L’Inter di Simone Inzaghi, in semifinale di Champions, evidenziò di nuovo tutti i problemi del Piolismo.

Ovvero gli stessi problemi che si sono ripetuti anche nella stagione che sta per finire. E allora si può dire: il Milan 22/24 ha dato l’impressione di giocare sempre le stesse partite. Proprio come approccio tattico. Un approccio che funziona quando la forma fisica è buona, quando tutto gira bene, quando non ci sono infortuni. Il punto è che nel frattempo, a Milanello, sono andati via Maldini e Massara. E poi Kessié, Rebic, Tonali. Al loro posto arrivati giocatori molto diversi: Pulisic, Musah, Chukwueze, Reijnders, Loftus-Cheek, Okafor. Tra questi, gli unici che sono stati sfruttati davvero bene sono Pulisic e Loftus-Cheek: due giocatori di grande velocità, che strappano benissimo la partita. I soliti giocatori che funzionano bene con Pioli, per Pioli.

Fondamentalismo

All’Atalanta, Charles De Ketelaere ha dimostrato che Pioli si sbagliava, su di lui. Ovviamente è successo e succede a tutti gli allenatori del mondo, molti anni fa persino Carlo Ancelotti non seppe annusare e sfruttare le qualità di Thierry Henry, ma l’esperienza di Pioli con il trequartista belga è sintomatica del suo modo di vedere il calcio. Di quello che possiamo definire come un vero e proprio fondamentalismo tattico.

Un fondamentalismo forse meno appariscente e meno raccontato rispetto a quello di altri allenatori, per esempio Italiano o Conte o Gasperini, ma non per questo meno rigido. Anzi, il nocciolo della questione è proprio questo: se vuole prendere Pioli, De Laurentiis deve affidargli – e quindi deve acquistare – una certa tipologia di calciatori. Quella tipologia e non altre, perché il rischio – documentato dal vissuto di Pioli al Milan, ma anche alla Fiorentina, all’Inter, alla Lazio – è che il nuovo tecnico non riesca a imporre e trasmettere i propri concetti. Esattamente come è successo a Rudi Garcia. Certo, Pioli si presenterebbe con una credibilità diversa, più alta, rispetto al tecnico francese. Ma il Napoli, al momento, è una squadra che sembra poter parlare una sola lingua tattica.

Intendiamoci: l’eventualità dell’arrivo di Pioli e di una rivoluzione tecnico-tattica, per chi scrive, non è ontologicamente sbagliata. Tutt’altro. In virtù di tutto quello che abbiamo detto finora, però, il Napoli finirebbe per sconfessare un fondamentalismo e per abbracciarne un altro. Succederebbe la stessa cosa anche con Gasperini, Conte e Italiano? Forse sì, anzi certamente sì. Ma questi tre allenatori hanno dimostrato di essere più versatili. Non tanto perché variano più moduli e diversi principi di gioco, quanto nella capacità di adattare le loro idee a calciatori diversi. Questa è una dote importantissima, per un tecnico contemporaneo. E Pioli non ha saputo manifestarla.

Conclusioni

L’arrivo di Pioli, insomma, dovrebbe comportare un reset completo, per il Napoli. Non tanto e non solo perché il calcio di cui è innamorato De Laurentiis (4-3-3, possesso palla, gioco di posizione), e che da un decennio fa da “guida” per l’assemblaggio della rosa, dovrebbe essere abbandonato. Questo scenario, l’abbiamo detto, si materializzerebbe anche con Conte e con Gasperini. Forse solo Italiano darebbe un po’ di continuità, in questo senso. Il punto è che anche il mercato andrebbe tarato su altri profili, i giovani da valorizzare dovrebbero avere delle caratteristiche ancora più specifiche, quindi ancora più rare.

Di conseguenza, anche il modello-De Laurentiis che abbiamo conosciuto finora andrebbe quantomeno rivisto. Perché finora, si può dire tranquillamente, solo Benítez è stato davvero accontentato in sede di mercato. E solo alla prima stagione. Sì, Sarri e poi Spalletti hanno avuto delle squadre poi rivelatesi in grado di seguirli, di giocare benissimo e persino di vincere. Ma il punto è che il Napoli è una società che, sul mercato, deve sfruttare le occasioni che gli capitano. In entrata e in uscita. Non può limitarsi, non può monitorare e poi acquistare solo una certa tipologia di calciatori. E, soprattutto, al momento è praticamente privo di elementi che potrebbero adattarsi subito a Pioli, alle sue idee radicali e incorruttibili. Anche questo è un aspetto che De Laurentiis e Manna non possono sottovalutare. Non dovrebbero, quantomeno.

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