Fu lui a scegliere la strada dell’ipocrisia (il troppo amore) per l’addio. Non tollerava più De Laurentiis. Ora cambia versione. È passato un anno. La vita va avanti
Signor Spalletti, bisogna saper vincere. Un bel tacer non fu mai scritto
In principio fu il troppo amore («lascio per troppo amore»). Ora, un anno dopo, la versione è cambiata: «Non sono andato via da Napoli per paura. A Napoli avevamo tutto per dare seguito a ciò che abbiamo vinto. Bisognerebbe essere a conoscenza di tante cose. Io voglio bene a tutti, perdono tutti, ma non dimentico. Non dico perché sono venuto via, ma non per paura. Ho avuto i miei motivi».
Visto che continua a parlare del Napoli, ne desumiamo che la versione di Luciano Spalletti cambierà ancora. Possiamo comprendere le reali motivazioni dell’uomo. Lavorare con Aurelio De Laurentiis dev’essere un’impresa poco simpatica, per usare un eufemismo. Ed è questa la chiave da non dimenticare. Dall’addio in poi, ogni successiva dichiarazione di Spalletti va sempre letta in controluce per darsi la risposta alla domanda: “qual è il comportamento che più danneggia De Laurentiis?”.
Un anno dopo, la rabbia e il rancore non si sono placati. Ma neanche un po’. Nemmeno dopo la celebrazione avvenuta col film che esalta (e ci mancherebbe) il ruolo del signor Luciano. Anche qui però non vanno sottovalutati i ventitré minuti dell’opera dedicati alle sconfitte della scorsa stagione col Milan: lo 0-4 in casa e l’eliminazione dalla Champions. Ventitré minuti di perfidia presidenziale cui il ct ha risposto con le due frasi degli ultimi giorni: una al Corriere della Sera («Tre allenatori in genere non si cambiano neanche in cinque anni. Come si fa in pochi mesi ad assimilare tante cose da uomini che hanno metodi e caratteri diversi. I giocatori, talvolta, devono essere confortati, convinti di essere forti. Basta un nulla per demotivarsi. Ragazzi giovani come Zirkzee, Kvara per esempio vanno coltivati, difesi e sostenuti ogni giorno»). E l’altra ieri al World Meeting on Human Fraternity al Salone d’Onore del Coni. Alle frasi riportate in apertura va aggiunta quella sui tifosi: «Abbiamo vinto non per merito mio, ma per merito di una città che ha una passione tremenda». All’ascolto della dichiarazione, l’ipocrisiometro è saltato. Si è rotto l’apparecchio.
Spalletti non sopportava più De Laurentiis
Spalletti è andato via perché non sopportava più De Laurentiis. Lo abbiamo scritto in ogni salsa. Girava con un quadernino su cui aveva annotato tutti gli sgarbi che a suo dire il presidente gli aveva fatto. L’elenco era ed è lunghissimo. C’era annotato di tutto: dagli aerei scelti per le trasferte, alla rabbia per il pareggio della Salernitana che fece saltare il catering presidenziale per la festa. A tantissime altre cose. A dichiarazioni varie. Come – ad esempio – quelle in cui De Laurentiis provò l’anno precedente a darlo in pasto ai tifosi.
Era terminata la prima stagione di Spalletti. La piazza si era convinta che il responsabile del mancato scudetto fosse l’allenatore di Certaldo. Dries Mertens ci mise il carico con una dichiarazione in tv (cui Spalletti rispose in tempo reale: aveva ragione Spalletti). Che cosa fece De Laurentiis? Lo difese? Non proprio. Prima andò a casa di Mertens a dare il benvenuto al piccolo Ciro. Poi rilasciò alcune dichiarazioni. Sì, elogiò il suo lavoro (sarebbe stato assurdo il contrario: il Napoli arrivò terzo, l’anno prima era rimasto fuori dalla Champions) ma lo accusò subdolamente di scarsa napoletanità. Che in un contesto come quello locale, è una perfidia. Fu un momento profondamente spiacevole. Anche perché due giorni dopo, i tifosi esposero uno striscione a dir poco ignominioso all’esterno dello stadio: “Spalletti: la Panda te la restituiamo, basta ca tene vaje”. Con riferimento all’auto rubata in autunno. Il povero Spalletti fu costretto al cosiddetto tour della napoletanità tra San Gregorio Armeno e Quartieri Spagnoli.
Questo per dire che l’allenatore aveva e ha le sue comprensibili ragioni. Poi, però, ha voluto di sua sponte imboccare l’autostrada dell’ipocrisia. Anche perché se avesse rivelato pubblicamente l’astio nei confronti di De Laurentiis, il presidente lo avrebbe tenuto fermo un anno. Sta di fatto che scelse la strada dell’ipocrisia con la balla del troppo amore. Ovviamente non gli ha mai creduto nessuno.
La guerra dei Roses
È nell’ottica del “danneggiare De Laurentiis” che vanno letti e interpretati i continui attestati d’amore di Spalletti alla città. Oltre a quel che abbiamo scritto sulla Panda e lo striscione, ricordiamo che al suo arrivo a Napoli non c’era neanche un tifoso ad accoglierlo. Nemmeno uno. La città è poi salita sul carro di Spalletti quando proprio non se ne poteva fare a meno. In estate venne anche contestato perché – in piena tempesta anti De Laurentiis – da signor professionista difese il signor Aurelio e l’azienda Napoli dalle accuse dei tifosi che protestavano per la cessione di Mertens, Koulibaly e Insigne e l’arrivo degli sconosciuti Kim e Kvaratskhelia. Sempre competente i tifosi del Napoli.
La loro (quella di Spalletti e Adl) è una sorta di guerra dei Roses. I due non si tollerano. A nostro avviso, Spalletti ha tante ragioni. Ma nel momento in cui decidi di troncare, dovresti farti da parte. Anche il suo rapporto con la squadra dello scudetto andrebbe ricordato. Lui ha notevoli meriti. Ma non dimentichiamo le sue parole alla vigilia di Lazio-Napoli, a inizio stagione, dopo due pareggi consecutivi, quando disse: “Volete che vi faccia i disegnini di chi è andato via e di chi abbiamo preso?” Come a dire che i nuovi arrivati non erano all’altezza di chi era partito. Poi, si sa, è comodo cambiare le carte in tavola.
Riassumendo. Spalletti ha la sua notevole porzione di merito nella conquista dello scudetto. E nessuno gliela toglie. Va anche sottolineato che De Laurentiis, col proprio grottesco autolesionismo e gli errori a cascata, ha finito con l’ingigantire il ruolo di Spalletti. Come accaduto con Maradona e i suoi scudetti, più il Napoli andrà male e più l’impresa di Luciano e i suoi diverrà intoccabile. Guarda caso, quest’anno il 10 maggio (anniversario del primo scudetto) è passato quasi sotto silenzio.
Spalletti, basta con l’agenda del rancore
I fatti gli hanno dato ampiamente ragione, del resto solo De Laurentiis poteva pensare che chiunque avrebbe potuto allenare il Napoli. Se magari De Laurentiis avesse ingaggiato Thiago Motta e magari avesse venduto qualche calciatore che andava venduto di fronte a cifre monstre (e sopratutto non fosse entrato in quella dimensione di ridicola onnipotenza), forse oggi di Spalletti si parlerebbe decisamente meno. Perché Spalletti ha i suoi meriti per lo scudetto, però anche De Laurentiis li ha. Non sempre (anzi mai) è stato la sciagura di quest’anno. Altrimenti il club non sarebbe rimasto ai vertici per oltre dieci anni.
Ma francamente si potrebbe anche mettere un punto a questa vicenda che sta cominciando a diventare puerile. Lasciarsi dettare l’agenda dal rancore (condita da ipocrisia) non porta mai buoni frutti. Non c’è nulla di peggio di una persona che non sa vincere. Arriva sempre il punto in cui la carta si indigna. E improvvisamente si perde lo status di intoccabile.