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Copa 71, il documentario che racconta il Mondiale femminile oscurato dal maschilismo (Elle)

Il regista Erskine: «Alcune di loro non ne hanno parlato per cinquant’anni. Furono indotte a provare vergogna, a credere di aver fatto qualcosa di sbagliato»

Copa 71, il documentario che racconta il Mondiale femminile oscurato dal maschilismo (Elle)

Elle intervista Rachel Ramsay che insieme a James Erskine ha firmato la regia di Copa 71, un documentario che racconta la storia di una Coppa del Mondo di calcio giocata nel gigantesco stadio Azteca di Città del Messico di cui, per cinquant’anni, nessuno sente mai parlare. Il motivo è da ricercarsi nell’eterno maschilismo del calcio, perché quella Coppa del Mondo era di calcio femminile e infatti, finito il torneo, alle squadre femminili di Messico, Argentina, Regno Unito, Francia, Italia e Danimarca (che vinse) fu impedito di continuare a giocare a livello professionale.

«Oggi il calcio femminile riceve molte sovvenzioni – spiega – , ma questo non cancella il fatto che, secondo la versione ufficiale, sia nato negli anni Novanta»

Questa vicenda racconta molto della nostra società, non crede?

«Sì, ci dice quali sono le voci a cui diamo valore e quali le persone a cui concediamo il diritto di raccontare la propria storia. La sfida principale nel girare il documentario è stata trovare chi volesse investire in un progetto che aveva come protagoniste donne oggi settantenni. Abbiamo dovuto convincere molti che il pubblico le avrebbe ascoltate volentieri e che non sarebbe stato necessario affidare le loro parole a delle giovani attrici, perché avevano una presenza scenica potente. Ci siamo scontrati con sessismo e ageismo. Noi abbiamo smantellato i pregiudizi. Nei racconti di queste ex atlete straordinarie ci sono tantissima passione, senso dell’umorismo, consapevolezza. I loro ricordi sono incredibilmente accurati»

Le protagoniste hanno aderito  al progetto con un certo nervosismo: perché?

«Alcune di loro non avevano mai più parlato di questa esperienza per cinquant’anni. All’epoca furono indotte a provare vergogna, a credere di aver fatto qualcosa di sbagliato. E se qualcuno ti toglie il giorno più bello della tua vita, quasi convincendoti che non sia mai esistito, il trauma è enorme. Sono passate dal trovarsi davanti a 110.000 persone osannanti al sentirsi dire che non potevano più giocare in maniera professionale perché il calcio femminile non esisteva. Abbiamo impiegato molto tempo a costruire con loro un rapporto di fiducia, affinché si sentissero al sicuro».

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